Oscar 2003

Tutto secondo copione?
a cura della Redazione

 
  ^ Bowling a Columbine di Michael Moore

La non-notizia dell’edizione dell’Oscar numero 75 è la vittoria di Nicole Kidman, mesta conferma dell’asincronia con cui l’ambita statuetta cade in mani giuste nel momento sbagliato. Le chances di essere chiamati sul palco dell’Academy Award aumentano, per qualsiasi attore, in maniera proporzionale all’alterazione del proprio fisico e/o della propria psiche: inutile stilare la lunga lista che comprende la cecità di Al Pacino, il rincoglionimento autistico di Dustin Hoffmann, il piede sinistro del paraplegico Daniel Day Lewis. Ci voleva un trucco che ne alterasse profondamente la beltà per assegnare alla Kidman il giusto riconoscimento di attrice migliore del mondo del momento; che se ne sgraziasse il viso per poi inserirla in un polpettone matusalemmico per ovviare alla mancata ricompensa che sarebbe stata più puntuale lo scorso anno per Moulin Rouge (premio del resto giustificabile anche in virtù della sottile e vivida performance del contemporaneo The Others).
L’altra non-notizia è la sconfitta pesante subita da Gangs of New York, snobbato in tutte le nominees. Una debacle forse figlia di un compromesso maldestro tra le mire economiche della Miramax e le sacrosante pretese autoriali di Scorsese. Ma soprattutto dovuta alla difficile digeribilità della ferocia con cui il regista italo-americano ha descritto l’America che fu: paese crudele, violento, mafioso nell’anima, con una fisicità difficilmente riscontrabile altrove in questo momento. Così, allorché un premio, per così dire, d’accompagnamento, che unisse il miglior regista al miglior film (Chicago+Rob Marshall) come di solito succede, sarebbe stato un frettoloso errore (più o meno analogo a quello dello scorso anno con Ron Howard che sconfigge Robert Altman o Ridley Scott, per intenderci), si è preferito ripiegare (Polanski ci scusi) sul personale e appassionato racconto dell’Olocausto firmato dal regista polacco. E qui forse sta la notizia, in quanto, per chi non lo sapesse, Roman Polanski non mette piede sul suolo americano dagli anni settanta quando fu condannato in contumacia per molestie ad una minorenne. Abituati ad un’America restia a scordare brutture e peccati di natura sessuale con un rancore che travalica il senso artistico, la decisione dei membri dell’Academy Award ha il sapore di un perverso cambio di marcia successivo allo scoppio della guerra in Iraq. Per sgomberare il campo da eventuali equivoci è giusto sottolineare l’assoluta valenza di un film che affronta il tema dell’Olocausto con la puntuale sensibilità di chi quel dolore lo ha vissuto ed ha saputo tradurlo in cinema nel momento più appropriato della sua carriera. E con una composizione narrativa più equilibrata e ragionata di quella di Scorsese, se la vogliamo dire tutta. Meno palpitante e istintiva, tuttavia. Ma non si può negare che un paese che ama autocelebrarsi non poteva esimersi dal mostrare la sua faccia buona e buonista premiando la testimonianza di una vittima dell’impero del Male di cinquant’anni fa, quando tutt’intorno all show la protesta per una guerra solo americana infuria a colpi di slogan, di forfait, di ipocrita e autoimposta sobrietà. Tanto più che Il pianista celebra una doppietta con la scelta di Adrian Brody quale attore protagonista, preferendo la sua eccellente e nitida interpretazione sia alla compostezza laconica di Michael Caine, capace di fornire un senso di decenza ad un film, The Quiet American, concepito malamente, sia ahinoi, alla furia attorica di un Daniel Day Lewis: bestia disumana ed esuberante mattatore dei bassifondi newyorkesi filmati da Scorsese. E sia al gigionesco ritratto di identità nulla di Jack Nicholson
Eccezion fatta per Chicago, dunque, primo musical premiato come miglior film dal 1968, l’edizione 2003 ha assunto i colori dell’Australia ( anche se Nicole è da considerarsi americana acquisita) e dell’Europa, compresi quelli spagnoli di Almodovar e del suo Parla con lei. Proprio quando impazzano le critiche al nazionalismo americano, dunque, lo star system acclama i lontani parenti deol vecchio continente.
Del resto se lo show deve andare avanti è giusto che, come gli americani ben sanno, lo faccia rispettando un copione dal sicuro successo. Spiazzante proprio quando tutti si aspettavano una ridda di premiati a stelle e strisce. Un copione che prevede perciò la riconsiderazione di un emarginato, la sconfitta del figlio ingrato, la ricompensa della fata imbruttita che non susciti più tante invidie. Mancava il diversivo, il personaggio extra, la scheggia impazzita che cambiasse la marcia e fornisse un tassello memorabile.
Ci ha pensato Michael Moore a darglielo, gridando i suoi anatemi al presidente Bush, accusato di essere un fantoccio che ha truccato le elezioni per poi avventurarsi in una guerra ingiusta e sanguinaria. Coerente al suo piglio aggressivo già mostrato nei documentari, Michael Moore è entrato nel sistema e ha gridato il proprio sdegno davanti ai sorrisi di circostanza della platea dei vip. Avrebbe potuto aggiungere un gesto ancora più eclatante, ovvero il rifiuto dell’Oscar (facile a dirsi…). Ha preferito inveire e far parlare di sé, almeno per un giorno o due. Non per farsi pubblicità, perché Michael Moore se ne sbatte. Ma per la mole provocatoria che lo contraddistingue. Il fatto è che ha fornito alla serata fittizia il personaggio mancante per cui la stessa potrà essere ricordata quando magari sarebbe passata sotto silenzio, ingoiata dalle informazioni sul conflitto in Medio Oriente. Forse Michael Moore ha sbagliato. Forse.
Kaurismaki ha preferito starsene in Finlandia. Moore è sceso in campo. E ha vinto con il suo graffiante documentario. Ma insieme a lui ha vinto anche la sovrastruttura che lo ha premiato, però.

8 mile
Bowling a Columbine
Chicago
le Due torri
Frida
the Hours
il Ladro di orchidee
Parla con lei
il Pianista
the Quiet american