il Pianista

Fisiologia morale dell’ arte
di Francesco Rosetti

 
  the Pianist, G.B. /Fra /Ger /Ola / Pol, 2002
di Roman Polanski, con Adrien Brody, Emilia Fox

Il pianista non è un film facile, nonostante la semplicità quasi monocorde della messa in scena, anzi a maggior ragione, visto che la radicale crudeltà di sguardo di Polansky si mimetizza benissimo nel rigore spoglio(e apparente) della confezione. Forse proprio il tono degli elogi con cui è stato accolta quest’ opera costituisce l’ostacolo maggiore da superare per entrare veramente nel discorso impostato dal regista polacco. Film classico, trasparente, tradizionale? Commosso omaggio alle vittime dell’Olocausto? Tutto vero probabilmente, ma ci si dimentica che questo è un film di Polansky sull’Olocausto, vale a dire di un autore il cui sguardo ha sempre cercato la suggestione dell’inquietudine, dell’ angoscia, dell’ ambiguità, in tutta la sua filmografia. A questo sentimento di scetticismo angosciato, non si sottrae nemmeno Il pianista, anzi Polansky usa proprio questa distaccata amarezza come perno di una pietas invisibile. Di qui la necessità di una messa in scena tradizionale. Perché qui classico non vuol dire rutilante spettacolo hollywoodiano, ma è inteso come razionalità visiva, capacità di riprodurre, ma al contempo ricostruire il reale, coglierne il versante nascosto dietro le apparenze della verosimiglianza. Dietro questo rigore, dietro la regia invisibile, la fotografia dai toni smorti e rugginosi, la colonna sonora quasi assente si manifesta sempre l’ esigenza di scremare le apparenze per cogliere qualcosa di indistinto, opaco, pericolosissimo, il male assoluto. Quel male incastonato in ogni singola ripresa di Polansky, ma sempre sfuggente, irriducibile al razionalismo della macchina da presa(dello sguardo), che in questo caso si manifesta nell’ accezione storica dell’ evento monstrum del secolo: lo sterminio degli ebrei. Tanto più pericoloso perchè evidente, tangibile eppure insensato, misteriosissimo dentro il meccanismo della storia. Qui infatti la storia è pura morte al lavoro, macchinario stupido che travolge le singole vite con indifferenza, come solo in Kubrick era stato mostrato. Di fronte alla lucida contemplazione di questo scempio non è possibile contrapporre consolazioni di sorta, fughe nella trascendenza o nell’umanitarismo, rimane l’assurdo nella sua reificazione. E la musica, convitato di pietra dallo statuto tutt’ altro che netto. Perché è vero che fin dalla prima scena viene impostata una contrapposizione tra orrore e attività artistica, ma senza nessuna connotazione retorica. Szpillman (Adrien Brody) suona alla radio polacca, interrotto da un bombardamento tedesco vorrebbe continuare il suo pezzo, ma è costretto alla fuga. Il gesto del pianista non è affatto sottolineato come atto dovuto, semmai come un capriccio o come un lavoro da compiere. Szpillman non è un titano o un esteta pazzoide che invoca le ragioni dell’arte contro la barbarie, ma solo un povero cristo dal grande talento musicale, vorrebbe semplicemente sopravvivere alla forza esterna che irrompe nella sua vita.. Ed all’ insegna della sopravvivenza si snodano tutte le sue azioni nel film, come quelle dei suoi familiari e degli abitanti del ghetto di Varsavia. Tutta la prima parte è la cronistoria di quella quotidiana pena che fu il vivere nel ghetto, mentre uno scollamento sempre maggiore si avverte tra microeventi dei personaggi e macroeventi storici, i soli che smuovono la trama, abbattendosi sui protagonisti come catastrofi naturali, secondo una logica imperscrutabile. Gli aneddoti pescati da Polansky infatti non assecondano nessuna narrazione, somigliano ad un flusso apparentemente disordinato di ricordi orrorifici (l’ uomo in carrozzella gettato dalla finestra, il bambino massacrato a calci sotto il muro del ghetto), squallidi, miserevoli (la vendita del piano ad un usuraio degno della matita di Grosz), ma nella loro somma algebrica danno l’ idea di una situazione intollerabile, eppure supinamente accettata. Forse c’è rabbia dietro l’impassibilità con cui Polansky filma questa degradazione, con la M.D.P. che non aggiunge nulla e non risparmia nulla, di certo c’è lo sconcerto davanti al vuoto, all’ opacità, all’ assenza di spiegazione. Un amico di Szpillman afferma d’ un tratto: “La fortuna aiuta la storia”. Per la storia intesa come categoria del pensiero, sequenza di eventi gestiti dall’ uomo è un de profundis, un epitaffio sarcastico. Poco dopo infatti arriva la definitiva frattura tra tempo individuale e tempo storico, con lo sgombero del piccolo ghetto. E dopo la catastrofe, dopo la cronaca minimale e le scene di massa, il male si può finalmente configurare come pura assenza, reificazione dei cadaveri tra le valigie abbandonate per strada. In questo nulla esistenziale e metafisico Adrien Brody è un tipico antieroe polanskiano, un uomo solo (tra Kafka e Hitchcock) braccato da un Universo lontano e ostile, come in Frantic, Rosemary’s Baby, L’ inquilino del terzo piano. Un mondo falso a cui stavolta il cineasta non deve nemmeno prestare il suo sguardo visionario, gli basta tenersi a distanza kubrickianamente e contemplare l’allucinazione della realtà stessa mentre Szpillman nel disperato tentativo di salvarsi assume connotati quasi animaleschi (come la Pauline de La morte e la fanciulla) e l’ottuso macchinario della guerra divora prima il ghetto, con la rivolta del’ 43, poi la stessa Varsavia nell’ agosto del ’44. Via via Adrien Brody perde tutti i punti di riferimento: il tempo(dando l’ orologio ad uno dei suoi protettori perché lo rivenda dice “ mangiare è più importante che sapere l’ ora”), visto che il suo è solo un tempo della fisiologia, contrapposto al tempo degli eventi della guerra, d’ altronde altrettanto assurdo. Tutti quelli che lo salvano e lo proteggono nella sua fuga da una casa all’ altra (meglio, da una tana all’ altra), vengono arrestati ed eliminati senza che possa nemmeno fermarsi a compiangerli; alcuni di loro non si sa nemmeno se muoiano, semplicemente scompaiono. Non c’ è fuga nemmeno nella morte e nel suicidio in questa logica di pura sussistenza animale. Forse tenendosi lontano (geograficamente) da Auschwitz, Polansky mette a fuoco più di chiunque altro, ben più di Spielberg o Benigni, la mentalità di puro estraniamento, asfittica che domina la quotidianità del lager, finendo per approdare all’ impressionante paesaggio lunare di Varsavia in rovina. Una desolazione beckettiana, un’ immagine di Friedrich risciacquata nell’ orrore macchinale del ventesimo secolo. E di nuovo la musica, proprio quando si è toccato il fondo. Il pezzo improvvisato davanti all’ ufficiale tedesco più volte annunciato nel corso del film (Szpillman che sente una vicina suonare, Szpillman che ha la tentazione di suonare un piano ritrovato per caso in una casa in cui si nasconde) non è, lo ripetiamo una strombettata retorica sulle ragioni dell’arte contro la barbarie anche perché l’ arte non ha ragioni. Piuttosto la musica assume qui un valore di atto gratuito, del tutto irragionevole in quella situazione. Non rivela nessuna verità, ma sostanzia l’ uomo nella sua essenzialità ludica (Szpillman suona per sopravvivere, ma anche per il piacere di suonare, l’ufficiale ascolta per rilassarsi, quindi per recuperare il piacere della contemplazione, senza secondi fini). E’ atto umano troppo umano, inutile in prospettiva di utilità sociale (la cui ultima deriva è la guerra) quindi necessario, come la canzone cantata dalla prigioniera tedesca nel finale di Orizzonti di gloria (ma Kubrick non aveva tra i suoi progetti l’ idea di girare un film sull’ odissea di un bambino ebreo nel ghetto di Varsavia?). Certo il riappropriarsi per atto di volontà del proprio tempo individuale non salva la vita al soldato tedesco, morto in un campo di prigionia, ma è atto dovuto, anche se la poesia è impossibile dopo Auschwitz come aveva intuito Adorno(e forse era impossibile anche prima di Auschwitz). La gratuità sostanzia l’ uomo civile della necessità. Per Polansky l’ unica fragile barriera all’ orrore.