Bowling a Columbine
Doppia visione
di Luca Perotti e Adriano Marenco

 
 
America & Me
di Luca Perotti
Celebrity Death Match!
Nella sequenza finale di Bowling a Columbine, la silhouette goffa e cicciona di Michael Moore tallona quella altrettanto inadatta ad un decoroso corpo a corpo di Charlton Heston che, vecchio e affannato, caracolla sulle sue gambe “alzheimeriane” alla ricerca di un rifugio.
Un duello al rallentatore tra due corpi esteticamente improbabili, meritevoli di una collocazione più opportuna, e soprattutto giocato nel più totale controsenso in quanto ha luogo nella villa stessa del famoso attore americano, costretto perciò ad una fuga paradossale da un intruso che lo ha appena umiliato, ne ha violato la privacy, lo ha accusato al di là di ogni oggettivo senso della realtà di essere un responsabile indiretto della morte di un bambino di sei anni, in quanto presidente della NRA, la National Rifle Association che difende e propaganda il diritto dei cittadini americani al possesso di armi da fuoco. Un giornalista, sfacciato e fazioso, che ha fin lì sciorinato statistiche e accuse ergendosi a paladino della verità buona e giusta, tende un agguato a domicilio a colui che, in virtù della progressione narrativa del film, incarna la figura del cattivo, perseguitato con sete di vendetta e costretto ad un duello inaspettato da chi sembrava dapprima un ospite gradito e curioso per poi rivelarsi una spietata creatura senza scrupoli.
l documentario si mescola con la finzione infarcendosi sia di elementi patetici – Moore che mostra a Heston la foto del bambino morto per poi lasciarla appoggiata ad una colonna dopo il congedo dell’attore –, sia di venature grottesche.
Pur nella volontà di una denuncia aggressiva e puntuale, nel contesto documentaristico scelto da Moore, sarebbe usuale il mantenimento di una neutralità critica dall’oggetto, una sorta di concessione di un margine di dubbio.
La distanza viene invece brutalmente azzerata sia fisicamente, sia ontologicamente, in quanto in quei precisi istanti Bowling a Columbine si è definitivamente trasformato in una strana forma di fiction ibrida.
Il fulcro del paradosso sta nell’attrito tra le varie dimensioni che la figura di Heston viene ad assumere nei momenti del singolare scontro.
Una delle figure virili per eccellenza del cinema americano, spesso interprete di personaggi vigorosi e dalla parte del giusto, Heston, a sua insaputa, diviene il capro espiatorio di una montatura premeditata: la finta complicità di Moore, che mostra la sua tessera di membro appartenente al NRA, permette alla mdp di registrare le idee di Heston sulla violenza negli Stati Uniti, intuirne i raccapriccianti pregiudizi razziali; mentre il pedinamento ne mette a nudo la decadenza fisica e la grottesca vulnerabilità, estranea ad un’icona così carismatica. L’american hero diventa doppiamente american villain: sia nel contesto generale della denuncia lanciata da Moore, sia secondo le coordinate della fiction ricostruita internamente.Un villain puro, che non ha nessuna possibilità di liberarsi dell’etichetta nemmeno a film finito. La stella hollywoodiana collassa, ingoiata dalla penombra di una delle stanze della sua villa. La sconfitta risulta ancora più marcata in quanto l’aggressione dialettica non permette a Heston l’uso delle armi per legittima difesa contro qualcuno venuto in casa sua con intenzioni tutt’altro che amichevoli. La stella hollywoodiana diviene quindi simbolicamente impotente anche nel suo ruolo parallelo di paladino dei diritti dei cittadini bianchi.

Anomalie di un documentario
L’impietosa resa dei conti giunge a conclusione di un tragitto che ha visto Michael Moore scaraventarsi con il proprio corpo sul campo di battaglia tra i resti da lui stesso generati.
A partire da un fatto di cronaca – l’uccisione di tredici persone alla Columbine High School il 20 Aprile del 1999 – Moore lancia una bomba sui capisaldi della cultura americana per poi procedere ad un sopralluogo sulle macerie ed infine ingaggiare un incontro ravvicinato con chi è stato scelto come simbolo di una meschinità inaccettabile. Una vera e propria tattica di guerra con tanto di ostaggio e tortura. Bowling a Columbine contiene tutti gli ingredienti di un reportage: le interviste, la ricerca sul campo, le statistiche, le immagini di repertorio; ingredienti miscelati con un senso spericolato della provocazione e del bluff per arrivare al nocciolo della questione passando, sì, per il capo d’accusa principale,ovvero la facilità con cui in America è possibile entrare in possesso di un’arma da fuoco, ma penetrando ad un livello più profondo per stanare e destabilizzare i fattori di controllo che rendono gli Stati Uniti il paese dove ogni anno 11.000 persone rimangono uccise per ferite prodotte, per l’appunto, da armi da fuoco. Per avallare le sue congetture Moore si cala nei panni di attore-provocatore. Il suo è un corpo agente, una macchina da presa umana che travalica qualsiasi figura di intermediazione in un continuo approdare in spazi cruciali, sollecitando le persone coinvolte e tenendosi costantemente in contatto diretto con lo spettatore che viene trascinato lungo un itinerario dapprima confuso poi sempre più nitido.
Dietro la facciata da documentario, Moore crea in realtà un film che attraversa diversi modelli narrativi: il road-movie, il genere processuale, l’Whodunit, e si struttura come un film bellico in cui l’eroe si getta allo sbaraglio contro il nemico, armandosi dello strumento romanticamente e retoricamente incisivo del cinema-verité.
Per avvalorare le sue tesi, Moore non esita ad una strategia per certi versi terroristica e violenta in quanto non si limita ad introdurre ipotesi: l’accusa contro la malsana mentalità americana è simile al lancio di una bomba nel cuore della cultura e della storia senza né eufemismi né timori reverenziali. Per controbattere la cultura della legittima difesa quale deterrente contro la violenza, Moore concepisce un documentario rancoroso, che fa della malafede e del populismo le chiavi per scassinare le cassaforti del non-detto.  Moore capisce che una semplice constatazione oggettiva degli avvenimenti di cronaca e un riassunto degli eventi storici più importanti sarebbe uno sterile pour-parlez tra illuminati sfigati e decide di usare con consapevole sfacciataggine l’arma della malafede più bieca con cui affrontare i misfatti a tu per tu.

La paura e la retorica: occhio per occhio
La furia iconoclasta di Moore ricerca fondamentalmente lo squilibrio, a partire dal rifiuto di una tipologia di documentario/reportage che, pur non ammettendolo, è abitualmente inibita dalla necessità etica della par conditio. Per scuotere le coscienze degli spettatori che Moore sa essere quasi totalmente divisi in due fazioni: coloro che entrano al cinema già d’accordo con lui per partito preso e coloro che probabilmente al cinema nemmeno ci entreranno ma che d’accordo con lui non sono, e sempre per partito preso, il regista scaccia via qualsiasi intermediario tra sé e il suo assioma e punta a suscitare un’indignazione faziosa, una costernazione quasi caricaturale di marca Stoniana.
Il motivo di questa scelta è in sintonia con la mentalità americana stessa.
Il possesso legittimo di armi da fuoco, la pena di morte come sacra istituzione che nessun presidente, soprattutto per motivi elettorali, si sognerebbe di mettere in discussione, sono fattori di reazione semplicistica ad una situazione di cui non vengono ricercati i reali motivi scatenanti.Le equazioni sono immediate: in America c’è un clima di violenza, quindi ogni cittadino ha il diritto di difendersi anche uccidendo a sua volta; lo Stato ha il diritto di porre fine alla vita di un uomo che ha, a sua volta, ucciso. Moore risponde a questa mentalità di azione/reazione con una reazione di segno opposto, altrettanto populista e altrettanto, superficialmente, faziosa scendendo semplicemente sullo stesso terreno dialettico, usando le stesse armi contro gli assunti che vuole screditare.
L’umiliazione esplicita di Charlton Heston assomiglia allo spostamento di responsabilità verso un capro espiatorio simile a quello che ha visto Marylin Manson essere considerato complice e responsabile delle smanie diabolico-omicide di molti teenager. Ovviamente si tratta di una forzatura patetica, probabilmente di un monito volontariamente disonesto perché arriva dopo che il punto chiave della faccenda è stato individuato e analizzato.
Il cinema politico post-11 settembre e sulla scia dell’antiamericanismo, presente anche nell’eterogeneità degli omonimi cortometraggi sugli attentati alle torri gemelle, sembra aver scelto definitivamente la sua via dopo aver subodorato la presenza di un pericolo tangibile.
La radice comune su cui convergono gli sguardi di Moore, Loach, Gitai, ecc. è, inequivocabilmente, la responsabilità dell’influenza dei media. I corti dell’11 settembre non sono altro che una reazione sintomatica, un’espulsione doverosa delle tossine accumulate a causa di un’informazione oppressiva e monodirezionata. Come Ken Loach approfitta della concordanza di date per sparare a zero sulla politica intimidatoria e coercitiva attuata dagli Stati Uniti – in Cile nel caso specifico – Moore cita numerosi episodi di violenza barbarica compiuta per volontà o peggio ancora per negligenza (il bombardamento di un ospedale in Sudan) con il rischio calcolato di uscire fuori tema, sbagliare bersaglio, fare di tutta l’erba un fascio. I media finiscono sotto accusa come ingranaggio cruciale di un sistema più grande guidato da oscure componenti economiche e vincolato alle leggi del consumismo più banale e torbido.
Un sistema che continua ad essere sfiorato dalla denuncia, intuito, percepito, ma mai in realtà veramente assimilato con consapevolezza.
Moore afferma, senza ambiguità, che non è il semplice possesso delle armi a determinare il clima da Far West vigente in America, e a permettere a teenager disadattati di impugnare un fucile contro i coetanei.Si tratta altresì di un lavaggio del cervello, costante, senza freni, studiato per inculcare nella testa delle persone la paura dell’altro, semplificando la complessità di discorsi sociali ed economici, le svariate variabili in gioco, dividendole e annullandole come in una espressione aritmetica per giungere alla soluzione più comoda e praticabile. La paura diventa il fattore di controllo che muove opinioni e capitali.  Una tragedia di dimensioni simboliche e umane inusitate come quella delle Twin Towers diviene una gustosa, macabra, auspicata giustificazione di una politica che la fine della guerra fredda aveva destinato ad un sicuro declino. Bowling a Columbine è emblematico nella sua forma eversiva e contemporanea di cinema politico privo di filtri ossequiosi. Per dire qualcosa di sinistra è necessario dire anche qualcosa di sinistro. La malafede e la faziosità diventano dunque la replica al perbenismo idiota che devia l’attenzione verso le canzoni di Marylin Manson Perché, alla fine, il bombardamento monotematico, frettoloso, sloganistico delle informazioni non influenza tanto le opinioni ma inibisce qualsiasi visione alternativa anche in chi non ne sarebbe predisposto. Alla fine, c’è veramente chi, in assenza di un valido approfondimento, finisce inevitabilmente per dare la colpa alla musica rock, o a qualche altra causa generica. La ricerca del capro espiatorio più improbabile non è pratica comune solamente in America; fa parte di una mentalità a domino che crede nel rimedio più ipocrita come deterrente; che soffre della psicosi del complotto, che è figlia di uno squilibrio di punti di vista: da una parte il gioco a carte scoperte dei manipolatori dell’informazione che si impegnano affinché il messaggio rimanga sostanzialmente indeterminato e privo di spunti di analisi; dall’altra l’impeto sincero ma buonista di contestatori illuminati ma deboli, imbrigliati dal compromesso, dal rispetto per le opinioni altrui anche quando tali opinioni sono palesemente criminose. Moore individua con puntualità ed esattezza i punti chiave della delicata questione, ma sceglie anche la via dell’esibizionismo, andando ad umiliare Charlton Heston con la medesima sfacciataggine con la quale quest’ultimo si recò nella cittadina che ospita il liceo Columbine all’indomani della tragedia per difendere i diritti dei possessori d’armi.
È la strategia dell’inganno e della faziosità che confida nella dimenticanza e nella complicità della macroinformazione.
Come in un negoziato, si tratta di chiedere il più possibile per ottenere il minimo indispensabile. L’unica via perseguibile anche dall’altra parte della barricata è provocare un’emorragia di indignazione anche a scapito della buona fede.

Bowling For The American Dream
di Adriano Marenco

La palla di cannone da bowling
Puntata alla tempia del sogno americano
Ecchedice
Strike!
We Are Columbine!
Se sei un fallito adesso lo sarei per sempre.

IN GOD WE TRUST
Sta stampato a lettere e rilievo
Sulla fronte di dio
1 $
e la National Rifle Association
in pompa magna
raccontata dalla faccia da star magnanima
metteinscena lobby
dell’American Way of Life.
La Faccia Giusta per la Home of the Brave

Tutt’intorno un vecchio film di Charlton Heston in cui marcire.

Negli USA l’uomo nero affoga i figli gonfi di salute del sogno Americano.
In Italia l’albanese affoga in piscina i figli sani del nordest italiano.
E poi magari vai a scoprire che ad affogare i nostri figli biondi e castani
sono state le mamme stesse strafatte di telenovele&telepromozioni.

Noi siamo L’America sana e dobbiamo proteggerci dobbiamo proteggere la nostra famiglia la nostra famiglia la nostra famiglia e perciò ci rinchiudiamo sempre di più dentro serrature dentro serrature dentro serrature dentro recinti armati con Dio fino ai denti come cowboys circondati da indiani e dobbiamo comprare comprare comprare e infilarci nelle nostre ville bunker a beverly hills almeno chi se le può permettere.

E’ andata di lusso c’è una nuova paura da raccontare.
Le Torri.
Fissate
per ore
grazie al Peep-Show integrale
live\evil\e stupore.

Ripartiti a tappeto.
La borsa cade
ma lei non crolla.
Presto come una molla
rimbalzerà in aria.

La macchina da presa racconta cosa c’è dietro le facce di sorrisi imbiancati cosa c’è dietro i costumi da lap dance che imbracciano mitragliatori colla faccia di chi succhia un cazzo magari è il tuo se spari col mio fucile magari la mia bella faccia da uomo ricco e riuscito di mezzaetà sarà la tua se ti proteggi dall’uomo nero dall’uomo cogli occhi arabi dall’uomo giallo dall’uomo mosquito col mio fucile. Racconta un capitalismo spietato che è un dio spietato.

La macchina da presa racconta la verità seguendo la massa traballante che riempe lo schermo di Michael Moore.

Con Cristo arrestato da un’embolia
che paralizza le arterie ed ogni via.
  Usato
come un mulo dentro un mulino incatenato ad una macina
con la dentiera che mastica e macina
e sminuzza e sputa via.
E la carità a volte buona
come stuzzicadenti dell’anima
per disincastrare i residui dalle ruote.

Come quando esplode l’esercito di proiettili da caccia grossa alla paura.
Paura fabbricata in un mulino
che ha bisogno della guerra come del pane.

La macchina da presa racconta le facce racconta le schiene racconta i fori dei proiettili da supermercato racconta la faccia di una donna che lavora a un milione di miglia da casa per vivere nel welfare e lavorare secondo il colore di pelle che si può permettere.

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