8 mile

Pedinando il sogno americano
di Giuliano Tomassacci

 
  id., USA/Germania, 2002
di Curtis Hanson, con Eminem, Kim Basinger, Brittany Murphy, Mekhi Phifer

Doverosa premessa. Vista la natura della storia e gli intenti di sceneggiatura, 8 Mile vive dei suoi dialoghi e dalla loro matrice cittadina. Per l’edizione italiana la distribuzione ha optato per una selezione del doppiaggio, lasciando in originale con sottotitoli soltanto le sequenze di free-style nell’arena. Questa discutibile scelta indebolisce il resto del film, essendo, come ormai sempre più palese, l’adattamento italiano inadeguato alle coloriture degli slang dialettali statunitensi.Molta dell’efficacia narrativa viene quindi persa nella versione nazionale, a cui si fa riferimento nella seguente recensione.

Considerato alla luce dell’attuale quadro cinematografico, soprattutto statunitense, 8 Mile acquista una significativa importanza, forse anche maggiore di quella relativa al film in se stesso. Quest’ultima fatica di Curtis Hanson si presta infatti a ribadire la prosperante inclinazione di un certo cinema ad un’estetica del pedinamento improntata al pressoché totale scioglimento del mezzo nel flusso profilmico e, puntualmente, ne conferma la conseguente rielaborazione, quasi una riscrittura (in alcuni casi una vera e propria trasgressione ai consolidati canoni), della grammatica espositiva. L’esibita rivalutazione della macchina a mano rispetto alla steadycam, ad esempio, parla chiaro sul tentativo di svecchiamento e sulla ricerca di dialogo autentico che stanno alla base di tali, stimolanti, scelte narrative. Come di consueto però l’esagerazione stilistica rischia di condurre agli eccessi dei primari propositi, sconfinando nell’esatta antitesi di questi e proiettando ombre di autocompiacimento espressivo e sterilità formale (la messa in scena diluita nell’imperante soggettività spesso reclama distensioni di maggior strutturazione del decoupage). Si intravedono insomma orizzonti manieristici. In questo senso l’opera di Hanson può considerarsi ai limiti di contenimento, vista soprattutto la facilità con cui il soggetto si presta allo stile in questione e allo scandaglio psicologico, per il quale l’autore conferma una notevole sensibilità.
Dopo Wonder Boys infatti il regista-produttore, spalleggiato dalla Imagine di Brian Grazer, indirizza nuovamente il suo interesse al cammino di un adolescente verso la sua maturità personale e artistica.
Il pedinamento stavolta è quello di Jimmy Smith (Marshall Mathers-Eminen) lungo le strade del suo quartiere e in particolare lungo la 8 Mile Road, che delimita Detroit dal resto del mondo e divide i bianchi dai neri. Il problema per Jimmy non è tanto quello di farsi accettare dalla cultura afro, quanto quello di farsi accettare come interprete rap bianco dalla comunità, senza piegarsi ai pregiudizi, allo spietato codice di periferia e alle prevaricazioni quotidiane che si accompagnano alla precarietà economica, ad una madre alcolizzata (Kim Basinger) e alle amarezze sentimentali. Riassumendo con le parole del regista, “l’8 Mile rappresenta anche la linea psicologica che separa Jimmy dalla realizzazione dei suoi sogni”, cioè il desiderio di potersi imporre sulla scena hip-hop internazionale. Ad accompagnarlo nel raggiungimento di questo traguardo, gli amici di sempre, tra i quali Future (Mekhi Phifer), vera e insostituibile fonte di sprono e perseveranza. E’ grazie al suo appoggio che Jimmy arriva a gareggiare nella tanto agognata arena del free-style, superando le rivalità e i propri limiti. La strada su cui Hanson lo lascia alla fine del film è quella delle nuove certezze e delle nuove sfide, non imprescindibilmente quella del successo.
Efficace nel ritratto dello spaccato urbano (rilevanti le luci di Rodrigo Prieto e il lavoro scenografico di Messina) e del melting pot metropolitano, 8 Mile fotografa bene il sogno americano sempre più disilluso, atrofizzato da una nazione in panne, sotterrato dalle macerie stesse che hanno sotterrato la vecchia Detroit, ma comunque preteso e disseppellito con risentimento e vigore, reclamato a denti stretti quale debita ricompensa ad una sopravvivenza disperata. In questo frangente combattivo e grintoso il film consegue i suoi migliori risultati (ma in fondo altre pretese non sembrano esserci, è quindi l’opera può ritenersi adeguatamente riuscita), con particolare menzione dei due segmenti nell’arena – in apertura e chiusura – che propongono un’attraente sfaccettatura del mondo hip-hop e una rinfrescante variazione sul tema della sfida urbana.
A popolare il sottobosco metropolitano c’è un cast in buona forma. Spuntano la Basinger e Mathers, quest’ultimo impegnato in una apprezzabile prova d’esordio, tenendo comunque presente, nonostante il film non sia biografico, i non pochi punti di contatto tra la sceneggiatura di Scott Silver e la vita del rapper americano che provvede inoltre alle musiche originali, dosate con scrupolosità nel tentativo, riuscito, di non tradire lo spirito semi-documentaristico impartito da Hanson (si veda il trattamento della scena di sesso tra il protagonista e Alex-Brittany Murphy nella fabbrica, accompagnata dal solo commento ossessivo dei macchinari).
La scelta di non inserire brani del protagonista (eccezion fatta per brevi segmenti e per i titoli di coda) fugano poi qualsiasi dubbio di film-vetrina costruiti intorno a star di turno in cerca di cinematografici consensi.