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Gennaio 2008

Brevi
backtrack di Giuliano Tomassacci




 
Highscores

la Promessa dell'assassino
Howard Shore (Sony Classical)
In un frangente alle volte così sconfortante come quello della musica da film contemporanea, un compositore come Howard Shore se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Sorpassato senza chiassose rivalse lo scioglimento artistico con Peter Jackson dopo il Signore degli anelli (causato dalle divergenze artistiche per King Kong), contornato a ritmo di tango lo scontro tra bene e male in the Departed e vergato uno score per il fantasy the Last Mimzy, già tributato di promettenti recensioni oltreoceano, l’artista canadese ha ritrovato David Cronenberg con la Promessa dell'assassino, facendo ritorno agli stilemi più viscerali della sua grafia. La filigrana orchestrale dalla trattenuta emotività che tanto ha caratterizzato l’opera del regista canadese reagisce nuovamente alle immagini con tutta l’intensità di un tratto espressivo sempre in bilico tra epos operistico e scandaglio sottocutaneo della materia umana. L’iniziale “Eastern Promises” svela le inclinazioni fortemente etniche della partitura, che attinge alla tradizione armonico-melodica russa in ottemperanza alle origini dei protagonisti, ma licenzia anche subito alcune delle scritture spiccatamente shoriane (il trattamento dei bassi registri degli archi, che, su tutti, rimandano a Il silenzio degli innocenti). A farsi carico della narrativa un afflitto tema per violino, strumento che s’impone sull’orchestra per tutto l’arco dello score e che, nelle mani della scozzese Nicola Benedetti, ne sancisce la forma di sinfonia concertante. Si aggiunge, di rilievo nella strumentazione, la balalaica, anch’essa funzionale ad una tessitura sovietica che va ben oltre la semplice coloritura: in “Tatiana” la svolta danzante dell’adagio d’apertura; in “Slavery and Suffering” l’inno intonato dal coro maschile. Solo un ergersi teutonico degli ottoni riporta momentaneamente alle sonorità della Terra di Mezzo in “Trans-Siberian Diary”, per poi cedere nuovamente il passo alla linea violinistica, che chiude un lavoro di rimarchevole misura significativa. Il dodicesimo dell’ancora straordinaria collaborazione tra Shore e Cronenberg.

The Lord of the Rings: The Return of the King - The Complete Recordings
Howard Shore (Reprise)
La pubblicazione integrale dello score per il terzo e conclusivo capitolo cinematografico della saga de Il Signore degli Anelli chiude una delle operazioni discografiche che hanno già fatto la storia del medium cine-musicale. Dal 2001 al 2003, contestualmente all’uscita nelle sale dei tre lungometraggi di Peter Jackson ispirati alla saga di Tolkien, la Warner/Reprise pubblica diligentemente tre album con un sunto degli eccezionali score composti da Howard Shore. Sull’onda degli apprezzamenti riscontrati dai film e dalle colonne sonore (tre Oscar tributati all’avventura shoriana nella Terra di Mezzo), l’etichetta non interrompe la sua affiliazione con il franchise e nel 2005 manda alle stampe le Complete Recordings de La compagnia dell’anello presentando un piano dell’opera coraggiosissimo: tre sontuosi cofanetti, uno per ogni score della trilogia, scadenzati annualmente, contenenti in tre cd (più un dvd-audio dagli stessi contenuti ma in Dolby Surround) ogni brano composto per il film, per le rispettive scene aggiunte nelle extended version e le tracce non utilizzate. Ad avvalorare il già prezioso progetto, le dettagliate note analitiche alle partiture di Doug Adams, anche autore di una puntale guida all’ascolto traccia per traccia, disponibile on-line sul sito della Reprise. Con l’ultimo box-set de Il ritorno del re ora disponibile (il volume del materiale musicale ha reso necessaria l’aggiunta di un quarto cd), non si può che attestare quanto necessario sia stato l’impegno profuso a favore di una commento che reclama l’ascolto completo, che sa vivere autonomamente anche al di fuori delle immagini (lo dimostra anche la Sinfonia che Shore ha tratto dall’opera e che sta riscuotendo interesse da più parti nel mondo), che insomma incarna massimamente il modello di poema sinfonico primordialmente affine alla narrazione epica cinematografica. Non è un caso, dopotutto, che il trittico jacksoniano segua, discograficamente e musicalmente, le orme di Star Wars (le partiture di John Williams sono state ristampate nella loro completezza dalla Sony proprio lo scorso mese), evidenziando inoltre l’importante sensibilità maturata per la musica da film in ambito di pubblicazioni: l’opera di Williams ha atteso vent’anni prima della completa edizione discografica, quella di Shore poco più di uno.


On Screen

Più si ritorna al soundtrack di Across the Universe, viaggio in musical attraverso l’universo dei Beatles, più la sensazione che il risultato finale avrebbe potuto offrire maggior soddisfazione resta immutata. Complessivamente l’album (Interscope), nelle sue 16 cover dei Fab Four, offre un viaggio nella memoria sicuramente godibile. Julie Taymor non ha lesinato sulle forze da mettere in campo: Elliot Goldenthal - fedele collaboratore della regista per Titus e Frida (che gli valse l’Oscar), responsabile ovviamente anche dello score originale - e T Bone Burnett, già dietro il progetto di rivisitazione del repertorio clashiano in Walk the Line - Quando l’amore brucia l’anima) di Mangold, sono responsabili degli adattamenti dei brani per i membri del cast e dei nuovi arrangiamenti, non sempre all’altezza delle stesure originali e con frequenti perdite dell’anima beat congenita alla band di Liverpool. Alcune volte si rimane affascinati e sorpresi (come dalla virata ballad di “I Want To Hold Your Hand”), altre molto meno. Anche le guest star coinvolte, Bono (“I Am the Walrus”, “Lucy in the Sky With Diamonds”) e Joe Cocker (“Come Together”), non vanno oltre il risaputo – con un punto a favore per il bluesman. L’assenza di un quid davvero caratterizzante, forse svanito nell’inseguire un’eccessiva eterogeneità tra una rivisitazione e l’altra, privano il soundtrack di quel temperamento che invece nobilitava il soundtrack beatlesiano di Mi chiamo Sam. O, per restare all’attualità, che brilla nella “Here come the sun” proposta da Sheryl Crow in Bee Movie.

Non è mai passato inosservato agli ascoltatori più attenti e raffinati, così come alla Hollywood moderna che ha continuato ad approvare il suo approccio alla musica da film, anche quando lontano dallo standard orchestrale tout-court e più conforme al piglio elegantemente disadorno del personale stile trombettistico. Senza dubbio però Mark Isham sta vivendo dal 2004 una grande ribalta: l’apprezzamento riscosso dai suoi score per Crash di Paul Haggis e the Black Dalia di De Palma lo hanno portato ad un’attenzione e ad una produttività notevoli. Mentre è nelle sale il suo ultimo contributo all’importante collaborazione con Robert Redford (Leoni per agnelli), eccolo alle prese con una partitura rarefatta fino all’estremo, secondo connubio con Haggis. La musica di Nella valle di Elah (Varèse Sarabande / Audioglobe) fotografa lo sviluppo odierno della scrittura ishmaniana per il cinema (e non solo): sicuramente influenzata dall’architettura newmaniana, essenziale nel tratto armonico-melodico, scrupolosissima nella scelta strumentale e assai calibrata nella miscela tra acustica ed elettronica. Sempre alla periferia della significazione narrativa di ricalco alle immagini, intesa piuttosto ad una sublimazione dello stato psicologico, il commento condivide la retorica predominante della musica per il seriale televisivo postmoderno. E con essa la conseguente, marcatissima difficoltà di un ascolto disgiunto dal fotografico.

L’unico dubbio che si accompagna all’ascolto della colonna sonora (Rai Trade) composta ed interpretata da Miriam Meghnagi per Rosso Malpelo di Pasquale Scimeca riguarda il bisogno di accompagnare una storia radicalmente italiana come quella verghiana con influenze arabe ed africane. Una risposta sta forse nelle conseguenze fatalistiche che il trend della world-music nella musica da film sta generando da qualche tempo. Detto questo, va dato merito alla Meghnagi di aver elaborato egregiamente le influenze in questione, contornando il film, oltre che della sua fondamentale voce, di atmosfere spiccatamente terrene e popolari capaci di amalgamarsi alla storia. Non mancano i momenti di astrattezza lirica (“Stars and dreams”), anche questi ben posizionati e di sicura efficacia. Non ultima, una cura musicale degna di nota, con arrangiamenti in cui gli eccellenti solisti trovano il giusto spazio. L’incalzante “Keep in mind” è poi un saggio particolarmente esemplare dell’elevata qualità profusa nel confezionamento sonoro.


Off Screen

Durante un certo periodo carrieristico Ennio Morricone portò ad una sovrapposizione pressoché totale le sue due anime professionali, concertistica e cinematografica, agevolando alle inclinazioni formali della prima la preminenza nella grammatica della seconda. Fertile terreno per l’attecchimento delle soluzioni sperimentali stimolate da un simile trattamento musicale furono in larga parte gli score per la "trilogia degli animali" di Dario Argento. La Cinevox celebra l’ultima colonna sonora del trittico, 4 mosche di velluto grigio (1971), con una lussuosa edizione digipack rimasterizzata. Mentre una sola composizione dai vividi contorni tardo romantici, “Come una madrigale”, espleta le occorrenze melodiche, l’intero corpus orchestrale della partitura è sospeso in un procedimento aleatorio, fuori dagli schemi tonali. Una atteggiamento ricco di dissonanze e scritture disagevoli che accoglie anche un uso sorprendente degli idiomi e della strumentazione rock progressive (“Titoli”), quattro anni prima dello sdoganamento nel filone operato dai Goblin con Profondo Rosso. Le tre tracce inedite del disco comprendono la “suite V”, un saggio di improvvisazione “controllata” per batteria che merita menzione.

Due gemme del leggendario trascorso di Max Steiner nel genere “monstrous” degli anni ’30 tornano nella collana economica della Naxos, dopo la prima apparizione nell’edizione Marco Polo. La registrazione è ancora quella, impeccabile, ad opera del duo John Morgan e William Stromberg, rispettivamente restauratore delle partiture e direttore d’orchestra a capo della Sinfonica di Mosca. Si parte con il commento al non indispensabile sequel di King Kong, il Figlio di Kong (the Son of Kong, 1933). Steiner, usufruendo anche dei consacrati materiali tematici stesi per il primo film, dimostrò particolare simpatia per le immagini redigendo uno score ben al di sopra del girato, caratterizzato da un motivo blues sopravvissuto - non a caso - alla memoria del lungometraggio. Anche per il secondo lavoro proposto, la Pericolosa partita (the Most Dangerous Game, 1932), il compositore austriaco scrisse un tema memorabile, un valzer di sinistra efficacia per il protagonista. I motivi della comprovata immortalità dello spartito sono però da ricondurre alle scritture action (“The Chase”), rimaste, anche a distanza di generazioni, un topos contagioso per i musicisti hollywoodiani.

Un insolito evento segnò la storia della 20th Century Fox nel 1954: due autorità della musica da film, già consacrate dal successo e adulate da registi e produttori, unirono le forze in un connubio rimasto ancora oggi senza degni eguali. Neanche l’accoppiata Hans Zimmer/James Newton Howard recentemente assemblata da Chris Nolan per il suo Batman Begins può vantare l’aurea di straordinarietà che la collaborazione tra Alfred Newman e Bernard Herrmann conferirono a Sinuhe l’egiziano (The Egyptian). Ancor più insolito poi che uno dei poli del connubio fosse incarnato da un musicista notoriamente difficile, dal temperamento scostante e dalla genialità non corruttibile come Herrmann, che anzi si dimostrò soprendentemente aperto alla richiesta di aiuto di un Newman particolarmente indaffarato. Tanto da arrivare a lavorare su temi già stesi dell’amico. La generale tenuta dei differenti stili all’interno del contesto drammatico della prova segnalano la comprensione comune per l’opera dei due artisti, al punto che in alcune occasioni l’omogeneità della partitura - se non fosse per le specificazioni offerte dal cd con la reincisione di Williams Stromberg per Naxos - renderebbe difficile indicare le rispettive paternità dei brani.


Lo zoo di Talos (rejected score fuori dall’oblio)

Non è proprio un rejected in senso tipico: le considerevoli porzioni della magistrale partitura concepita da Jerry Goldsmith per Alien che non convinsero Ridley Scott, notoriamente poco sintonizzato con il compositore, furono riviste (in alcuni casi completamente riscritte o rimpiazzate dal suo commento per Freud) dallo stesso autore. Né si può parlare di una pubblicazione inedita, perché sin dai tempi della prima edizione dvd il travagliato lavoro di Goldsmith figurava, su traccia isolata, sia nella forma finale che in quella originariamente pensata dal compositore - da cui una serie di riversamenti discografici al di fuori dell’ufficialità. Ciononostante l’edizione a due dischi licenziata da Intrada - a stretto giro dalla già apprezzatissima edizione estesa de Il vento e il leone - deve essere salutata come un evento davvero straordinario. Forse l’opera del catalogo goldsmithiano maggiormente necessitante di una riedizione (l’album edito dalla Silva Screen apparve subito insufficiente), la partitura del primo lungometraggio ad impostare le disavventure cosmiche di Ripley / Sigourney Weaver è l’epitome della musicalità fanta-orrorifica adulta. Che nel 1979 Goldsmith coniò ad usufrutto dell’intero genere venturo (declinandone, nello stesso anno, una variante lussureggiante ed eroica, ma non meno interessante, per Star Trek - The Motion Picture). I vocabolari di Ives, della scuola di Vienna e di Bartók al servizio del genio goldsmithiano più lucido echeggiano il suono della musica nello spazio profondo, nei meandri sospesi dell’astronave Nostromo, negli recessi siderali dell’umana e gelida paura. La scrittura orchestrale distillata avanguardisticamente risuona oggi più moderna di ogni approccio all’horror sintetizzato elettronicamente. La sublime retorica narrativa del commento offre ancora momenti di genuino terrore. Da tempo dovrebbe figurare tra i fondamentali della musica applicata tanto quanto della classica del novecento, e anche per questo ci si rallegra che l’Intrada non abbia limitato l’edizione ad una ristretto numero di copie da collezione.


25 fotogrammi

Si diceva a proposito del lavoro di Isham per Nella valle di Elah della fattiva difficoltà di ascolto lontano dalle immagini d’appartenenza, come per buona parte delle musicazioni televisive contemporanee. Eccone un esempio quantomai calzante. 63 minuti del soundtrack di Prison Break composto dal sempre più impegnato Ramin Djawadi guadagnano la pubblicazione su Varèse. Ma il prodigarsi plaudibile dell’etichetta di Robert Townson per portare all’attenzione lo scoring catodico odierno non sempre corrisponde ad una vera ragion d’essere di simili antologie. Già dopo una manciata di tracce delle 31 selezionate per l’occasione, ci si ritrova in balia del deja entendu, con loop ritmici che ricordano l’appartenenza del musicista tedesco alla fucina zimmeriana, sbozzi melodici fragilissimi e un senso di inconsistenza sovente insostenibile. Il problema, paradossalmente, sta nella validità della prova nel suo contesto originale, derivante dalla massima organicità con il corpus sonoro e con le dinamiche discorsive del testo televisivo. Non tutto lo scoring seriale postmoderno, al di là della qualità intrinseca (in questo caso non proprio entusiasmante) può vivere di vita propria.