King Kong

Il senso del meraviglioso:
un gioco di sguardi
di Emanuele Boccianti

 
  id., Nuova Zelanda/USA, 2005
di Peter Jackson, con Naomi Watts, Jack Black, Adrien Brody.


A volte capita che i punti di arrivo siano in realtà degli esordi, e altre volte capita che questi esordi siano anche epifanie, inaugurazioni di vocazioni e talenti di altissimo livello. Tra il King Kong di Cooper del 1933 e quello di Peter Jackson del 2005 ci passa una vita, letteralmente, quella del fantasioso regista neozelandese autore della Trilogia de il Signore degli anelli.
Narra la leggenda che sia stata la visione casalinga del classico in bianco e nero ad aver fatto scattare la molla ispiratrice al piccolo Peter, tanto da aver deciso subito dopo di mettere in scena un suo ludico remake, a base di vecchie stole di pelliccia e lenzuola. Il bambino aveva 12 anni, e si è portato dentro il sogno di rifare King Kong per tutti questi anni, come se in fondo i vari Bad Taste, Brain Dead, Creature del Cielo e compagnia fossero stati solo snodi, deviazioni sul percorso, messe a punto di un’arte che si rafforzava, consolidamenti di una vis immaginifica che diventava sempre più potente e consapevole. Sempre secondo le cronache di Hollywood il primo abbozzo di sceneggiatura sulla storia di un gorilla alto otto metri risalgono al ’96, con la quale Jackson sarebbe andato a bussare alla porta della Universal, per sentirsi dire: troppi film con bestie giganti, al momento (erano gli anni di Godzilla e de Il Grande Joe), comincia  a lavorare sul trittico fantasy di Tolkien. E Jackson di buon grado accetta, ma intanto con la testa sta sempre lì, su quel suo infantile progetto, e tutto quello che fa lavorando con elfi e anelli lo fa pensando – anche - a quello: collauda una squadra, prova tecniche, prende confidenza con la stoffa sontuosa e ingombrante del kolossal. Poi sente che i tempi sono maturi, torna alla carica, vara il sogno, forte della gavetta fatta con la Trilogia, con la quale, già che c’era, ha fatto anche incetta di Oscar.
 
Forse fa bene tenere presente il significato che questo progetto ha avuto per il regista, almeno per rispondere alla tipica domanda del critico quando si trova di fronte al remake di un classico, e cioè il lecito dubbio sulla sua necessità. King Kong “vanta” già un remake alquanto superfluo nel 1976, responsabile John Guillermin, e se è vero che il passo incalzante del progresso delle tecnologie cinematografiche può sempre servire come passepartout di massima, è senz’altro vero che nel caso di questo film le motivazioni sono un po’ più serie, e a nostro avviso pienamente palesate durante la visione. Non ci si trova stavolta di fronte ad un classico “più effetti speciali”, ma, molto semplicemente e molto profondamente, al cospetto di un nuovo modo di suscitare quel tipo di emozioni affidandosi ad un portato visivo potentemente rinnovato e mai tradito.
Il cinema di Jackson ha sempre avuto dalla sua la freschezza inventiva di una terra contemporaneamente vecchia e giovanissima; immaginare la Nuova Zelanda guardando una sua qualsiasi opera fa venire in mente spazi enormi, enormi potenzialità, luoghi che è possibile ridefinire a partire da zero, dalla propria spregiudicatezza, imbrigliati solo dal proprio senso del limite. E il senso del limite è molto chiaro nella poetica del nostro cineasta: è il “sense of wonder”, è ciò che sgomenta, magari anche solo per un puro calcolo mentale di proporzioni, quantità, dilatazioni. Che smettono di essere un mero gioco al rilancio aritmetico non appena ci si rende conto che quell’esagerare – spazi, tempi, situazioni grottesche o anche solo quantità di sangue - fa capo ad un’emozione da cui è sotteso e architettato.
Non c’è calcolo alla base dei tempi lunghi di King Kong, forse pure troppo lunghi in più di una occasione. È che quei tempi sono in qualche modo necessari a Jackson per caricare le sue immagini e rilasciarle, facendole brillare come dinamite. È un fatto di respiro della narrazione. Si prenda ad esempio la presentazione di Ann Darrow, la prescelta dalla Bestia, a cui una strepitosa Naomi Watts presta le sembianze. Inizio: New York, anni ‘30, lo sfacelo della Grande Depressione; zoom: una carrellata di modi per sbarcare il lunario, per non affondare nella miseria imperante, chi mendica, chi suona agli angoli delle strade, chi vende sottobanco, chi delinque; zoom: tra questi, chi pretende o spera di attirare l’attenzione e lo sguardo facendo cose bizzarre; zoom: lei, una di loro, una che spera di barattare per soldi un po’ di meraviglia estemporanea. Giocoliera, saltimbanca, mimo, ballerina. Qualche battuta, poi i primi piani, grandi occhi tondi mortificati dalla giornata eppure ancora e sempre sgranati. Ann Darrow vive –benché male - di quello di cui vive il suo regista: stimola e gratifica il “sense of wonder” della gente. Ann Darrow sopravvive, perché gratifica quello stesso senso del meraviglioso perfino nel gorilla che dovrebbe ucciderla. I contrappunti tra la bella e la bestia sono perfetti proprio perché giocati su questa falsariga del catturarsi con lo sguardo, del fare propria l’attenzione dell’altro; né, ovviamente, servono le parole. Quelli sono i momenti in cui più forte è il responso empatico  – di tutti: della giovane donna come dello spettatore - con il mostro, quelle le situazioni in cui si riesce meglio ad assimilarlo a persona umana. Quando smette di essere un archetipo di forza e primigenia virilità (e le tensioni erotiche tra i due protagonisti sono nette ed epidermiche, benché mai affidate a soluzioni scontate o troppo facili) e diventa individuo fatto di curiosità, stupito se non proprio meravigliato. Lui che è l’ottava meraviglia del mondo.

Quindi il rapporto che lega ciò che nasce come inconiugabile è, originariamente, proprio l’attrazione visiva. Idea cardine, quella della visione, anche dal punto di vista della realizzazione tecnica e narrativa della storia. Uno degli scarti in avanti rispetto all’originale del 1933 è infatti proprio l’importanza che il regista dà ai primi piani dell’animale. Un’espressività incredibile, attraverso la tecnica perfezionata in precedenza (Gollum docet) del motion capture computerizzato, che è senza dubbio uno dei valori aggiunti rispetto al classico, ed un ottimo esempio di come in questo caso l’effetto speciale sia stato usato a partire da un’idea, o meglio dall’idea di un’emozione. Jackson si fa di buon grado, e fino in fondo, alfiere di un uso del tecnologico come mezzo per catalizzare le emozioni più viscerali del pubblico. Non c’erano modi, prima de il Signore degli anelli, per rendere “quel” senso del meraviglioso facendo sorvolare lo sguardo su un campo di battaglia, su un castello assediato, o su un’isola selvaggia piena di selvaggi e di mostri. Ora, questi modi ci sono, nuovi e pieni di significato, e quasi viene da pensare che abbiano un po’ il marchio della Wingnut Films, che siano uno specifico jacksoniano. Panoramiche epiche prese da posizioni azzardate e originali, come il bellissimo duello aereo intorno all’Empire State Building, sembrano suggerire soggettive a metà strada tra il punto di vista di chi guida il biplano e drammaticamente vive l’azione, e chi invece all’azione non partecipa, è fuori dalle vorticose evoluzioni del profilmico ma sembra destinato a finirci dentro, risucchiato da movimenti che finiscono per mettere in gioco anche emotivamente. Chiamando a partecipare e a commuovere molto più che non l’addio, ben girato ma magari con un po’ più di accademia, in cui il gigante chiude gli occhi e si lascia cadere davanti alle lacrime di Ann.

Jackson ci mette di fronte ad un remake che palesa una parte sostanziale della sua poetica cinematografica, proprio perché punta ambiziosamente a rifondare un’estetica delle emozioni che parta da un preciso assetto formale. Primi piani e movimenti di macchina, oggetti colossali e colossali assembramenti di persone, mostri, torri, caverne, montagne, ogni cosa è squisitamente visiva, pensata e realizzata prima di tutto con cuore d’artigiano – e “poi” affidata alle workstation grafiche - per catturare il respiro e per restituirci l’effetto che certe cose avrebbero sulla nostra visione. Ma non nascono “nella visione”, bensì molto addietro, molto prima. È la capacità di soffermarsi sul meraviglioso, quando il meraviglioso è – più di ogni altra cosa - un gioco di sguardi, una schermaglia amorosa tra un primate alto come un palazzo e una attrice che non poteva sospettare che avrebbe avuto la sua Broadway (solo) su un’isola deserta.