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Discontinue spirali intorno a Sweeney Todd

Burton Returns: Memoria-Paura-Intrattenimento
Saggio di Eros Accolla



Realizzazione tecnica alla ricerca di un'anima (…), invece dell’ispirato umorismo alla Hellzapoppin' dei migliori film di Tim Burton, regala un parossismo di movimento privo di gioia.
Entertainment Weekly su Nightmare Before Christmas

- È morto?
- È questo il problema, era morto dall’inizio.
Il mistero di Sleepy Hollow

Quando si prova un timore reverenziale davanti ad un'immagine, può questo timore essere indice di una presa di distanza dall'immagine stessa? Oppure, addirittura, di un tentativo di seppellimento di quella visione, inumata perché troppo intensa per poter semplicemente essere accolta o sopportata?
Il tempo potrebbe lavorare sulla sovrapposizione di immagini, regalando uno spessore alla nostra visione mentale e creare così un nuova memoria.
Ma questo non elimina la distanza. Perché?
Imprigionati in una stanza, le tracce dei nostri tentativi di fuga ci appaiono come fossero foto di cari estinti appese alle pareti: distanti e amati. Sono quindi memorie, gigantesche, e mai gli indizi che dovrebbero svelarci la nostra prigionia. Il timore della realtà impedisce di essere lucidi. La possibilità di una coscienza della realtà è troppo spaventosa: questo timore si trasfigura in memoria. La memoria, in questo modo, aumenta la distanza dalla realtà.
Il seppellimento non garantisce la sparizione. Non ci si libera veramente del passato, perché il passato non è mai alle nostre spalle: è come se osservassimo una trasmissione televisiva in cui ogni programma non termina mai veramente, ma si sovrappone al successivo e al precedente, creando un’apparente tridimensionalità. Il tempo scorre ma non avanza. Seppellire i morti è inutile.

The bride with white hair
Il film omonimo non ha bisogno di spiegarci perché le ciocche della Bride of Frankenstein siano bianche. Come le suture sul suo corpo, anche il resto è già segnico. L'evidenza istantanea di una creatura che porta i segni del suo creatore. La moglie di Frankenstein di James Whale (1935), uno dei testi base dell'immaginario di Tim Burton e una delle opere più sublimi della storia del cinema, come il Freaks di Todd Browning (1932), è già marchiata dal suo terrore ancor prima di adempiere alla visione. Perché è la sua visione. Che è la medesima del suo creatore, nel film stesso e nella realtà. Traccia indelebile di una visione: un mondo composto da una valanga di morti. Morti selezionati con l'illusione di farne un uomo. Per comprendere qualcosa dell’apparizione (brevissima e centrale nella storia del fantastico filmico) della moglie di Frankenstein, bisognerà aspettare Tim Burton, La sposa cadavere e Sweeney Todd - il diabolico barbiere di Fleet street.
La visione ha penetrato la Sposa, alterandone le fattezze. Questo è il fatto straordinario post-Freaks. La diversità, quella dell'autore stesso ovviamente, è alle porte del patologico. Il fantastico diventa camp - il Rocky horror picture show (Jim Sharman, 1975) lo ha fin troppo estetizzato - ma prende poi strade più interessanti, manifeste e patologiche, appunto: Browning, Whale e Mario Bava ieri, Dario Argento, Brian Yuzna, Joe Dante, Frank Henenlotter e Burton oggi. Ma per gli altri che non sono in grado di trasformare il patologico in terapia, l'immagine che credono seppellita è ovunque. E preme addosso dappertutto. Anche, a volte, sull'incauto pubblico, con gli occhi rivolti all’esterno troppo aperti, e quelli rivolti dentro troppo chiusi.

L’uccellino in gabbia
Non si può che avere timore dell'Immagine: questo moloch spigoloso e ingombrante possiede mille ombre. “Entra una luce strana da fonti invisibili” dice Alfred Kubin ne "L'altra parte" (Die Andere Seite, 1909): fonti che appunto hanno un potere occulto perché risultato di tensioni e conflitti giocati su un altro piano. Scendiamo a patti con l'Immagine, l'accogliamo in noi, e il timore diventa presto una nostra costola. Nell’illusione ottica di due immagini conflittuali sovrapposte, nel caso di Sleepy Hollow un pettirosso (la madre) ed una gabbia (il padre), nasce irrimediabilmente una nuova realtà. Attraverso l’immagine simbolica - tutt’altro che consolatrice - della spirale, il protagonista Ichabod Crane non rievoca semplicemente ricordi, riaffiorati come in una sorta di ipnosi, ma piuttosto il movimento stesso della madre-sufi, che anela al cielo ma viene riportata nella gabbia della superstizione religiosa. Si trasformerà in uno strumento di tortura vero e proprio. Burton è ancora troppo innamorato delle immagini indelebili della sua infanzia filmica per non farsi sedurre persino dall’eccessivo dissanguamento della figura della madre, a causa della penetrazione di mille lame, che corrisponderà, nel momento della visione stessa, all’ulteriore penetrazione di ulteriori chiodi nei palmi delle mani del piccolo Crane. Facile trovare La maschera del demonio di Bava (1960) in questa soluzione, ma meno ovvio è notare che la maschera chiodata qui investe tutto il corpo, tutto il ricordo viene punito. Tutta l’immagine della madre viene trapassata. Tranne gli occhi, che continuano a guardare Crane tanto da trasferire con lo sguardo, palesemente, le mille stigmate nel loro luogo designato: i palmi delle mani del piccolo Crane. Come a dire: qui (e in tutta l’opera di Burton), la croce è l’immaginario da superare attraverso rischiose fenditure che, essendo noi quell’immagine, ricadranno sulla nostra maschera.
L’immaginario di Burton fino a qui è tutt’altro che orientato ad una svolta. Ma Sleepy Hollow è una lucida presa di coscienza. I personaggi non vivono più in un diorama come Beetlejuice o nel fondamentale Ed Wood, ma sono collocati per la prima volta all’interno in una realtà senza possibilità di fuga. Per Crane nessuno palliativo che non sia nella sua testa. Le cicatrici sulle mani torneranno a sanguinare anche dopo il rischiaramento londinese, nell’illusoria fede nel '900 entrante.

La guerra dei morti
C’è chi crede nel paradiso e chi all’inferno, io non mi pongo il problema perché non credo alla morte”.
La vertigine, usata in modo sistematico, è per Burton il simbolo che unisce il passato (le immagini materne dove ci si sentiva accolti perché appunto nell’ipnosi materica) e il loro tradimento intrinseco. Quelle fantasie non erano poi così eteree ma frutto di lavoro, rapporti sociali, compromissioni, in una parola: economia. Filmicamente parlando (poiché come si sa gli anni della Disney sono stati per lui più che esaustivi), Burton ha semplicemente scoperto da qui in poi l’ambiguità delle immagini e del cinema. La sua totale disonestà. L’assoluta disonestà intrinseca in un ricordo, poiché anch’esso fuori sincrono. Un’immagine non può corrispondere ad un sentimento reale, perché condannata ad un fuori sincrono. La visione di uno spettatore non potrà mai corrispondere con la durata, la fatica e il tempo investiti nella sua reale realizzazione. La visione dello spettacolo della memoria amata è la maschera, non tanto importanti le sue sembianze da demonio o da cinéphile, quanto lo spazio mancante delle orbite oculari. La maschera è ciò che si vede attraverso di essa, "Mirror mask". Un conflitto tra bambino cinefilo e adulto autore, che altre generazioni sembrano aver risolto scendendo a patti con esse e fondando l’industria che conosciamo. Le cose vanno male anche quando Burton chiede aiuto alla fantascienza in Mars attacks! e Planet of the apes. Guardando il cielo con lui non vedremo altro che piombare giù minacciosi esseri dai tratti e dalle fattezze duplicate da una collezione di figurine aliene in serie (praticamente tutti uguali), buone per intrattenere qualche bambino addomesticato e insozzato di cioccolata. Una palese guerra dei mondi dove l’alieno non è banalmente il diverso che minaccia il “nostro spazio”, dove l’umanità non si divide tra lo scappare e il difendersi, tra il perire o l’attaccare, ma pone come salvezza i gusti musicali di una nonnetta rimbambita reclusa in ospizio. L’alieno è la nostra serializzazione dell’immaginario. E sarà stroncato da un altrettanto pessima ma sublime canzoncina in vinile.

La maschera di scimmia
Cosa è il sottovalutatissimo Pianeta delle scimmie se non l’uso dell’escamotage del paradosso temporale come enorme maschera di scimmia sull’intero pianeta? Che infatti pone il tempo come scacco. Un tempo che modificherà per sempre le sembianze del mondo come quelle del futuro barbiere assassino. Un intero importante cast ricoperto da una maschera per mostrare il proprio volto e, soprattutto, il proprio talento interpretativo. Un film tutto risolto nella freakizazione di massa, fino al volto per sempre sfregiato del totem Washinghton. Sono cattivi gli umani con le scimmie-cavia, che sembrano accettare il loro destino. Ma quando si umanizzeranno saranno ancora più brutali. Non perché scimmie, però, ma perché più vicine all’uomo. All’immagine dell’uomo. In questo riflesso speculare, è ovvio che il film sembra non porre ulteriori evoluzioni intrattenitive. Ma il bacio dato di malavoglia dal protagonista Mark Whalberg (sempre scimmiesco) alla Elena Bonham Carter–scimmia, preferendole poi una vuota (nessun alieno al suo interno) modella bionda del paleolitico (Estella Warren), è grandissimo cinema. La bionda è di fatto la più smascherata, né scimmia, né selvaggia. Vuota. Un altro ritorno dallo spazio (filmico): la Raquel Welch da Un milione di anni fa (Don Chaffey, 1966). Un grande Burton, insomma, che però soccombe eroicamente sotto il peso (monetario) di questo pianeta. Prova ne è il commento al film nel dvd dello stesso regista: silenzi, disagio e sproloqui.

Primi tratti
Burton a tratti sembra ricordare che “siamo un corpo, non abbiamo un corpo” o meglio “siamo un corpo che non è il nostro”. È quello dello spettacolo, direbbe qualcuno. Tanto che dispiace non poter vedere, dopo l’emotiva versione Branagh, un Frankenstein da lui diretto. Le fruste sul corpo lasciano segni indelebili.
Il Joker è l’unico personaggio che interessa veramente a Burton in Batman. Il Joker è il primo personaggio di Burton che distrugge la realtà facendosela piombare radicalmente addosso. Tra un costume e il proprio corpo, ha fatto del proprio corpo un costume. Superando di gran lunga l’alternanza psichica di Batman-Bruce Wayne, personaggio che rimane sempre interdetto, tanto di fronte al Joker quanto al Pinguino. Un interdetto che cerca in risposta in coloro che, appunto, sono, in un certo senso, la loro soluzione. Batman-Wayne è un banale uomo e il suo doppio, con alle calcagna un passato di mancanze genitoriali. Pinguino e Joker come antesignani di Sweeney Todd, crudeli e vendicativi ma ancora chiusi in una dimensione ludica infantile, giocosa e circense, che si presta allo spettacolo pubblico e a un bagno di folla più che di sangue. Joker è lucido e teorico, tanto da sembrare un personaggio ispirato al saggio-capolavoro di Gilles Deleuze “Francis Bacon. Logica della sensazione” sul capolavoro-Bacon, l’unico pittore su cui il Joker non si sente di aggiungere nulla alla tela nella scena dell’attacco situazionista al museo. Lucido perché è conscio di essere un fumetto (nasce da una pozzanghera di inchiostri) e non si sognerebbe mai di saltare da una scenografia all’altra come un supereroe qualunque. Ma possiede l’eleganza del villain d’altri tempi, cercando a modo suo il consenso. Cerca di rendere pubblico il suo dramma. È, come Jack Skellington o Ed Wood, un regista di situazioni che cerca condivisione. Certo, timidamente entrano in scena le forbici, ma i tagli per ora sono circoscritti dal Joker al contorno delle figurine di donna sui rotocalchi. Una collezione, decine di sagome sparse sul pavimento, che dice molto sul rapporto di Burton con l’ideale femminile, messo al pari della serializzazione dell’immagine e del collezionismo. La serializzazione propria del collezionismo nega e dissolve l’opera attraverso un’addizione illimitata.
Nel videoclip della canzone "Bones" dei Killers (2008), diretto da Burton, il regista spoglia delle pin-up fino all’osso, ancora una volta. Le forbici del Joker escludono il mondo esterno per estrarre dalla foto solo l’immagine idealizzata di Vicki Vale-Kim Basinger, tanto da ridurre anche le donnine in carne e ossa che lo circondano ad una sorta di Pierrot dal volto liquefatto. Il Joker è un volto senza trucco perché truccato per sempre. O meglio, rinato trucco e non più truccato. Questa sottrazione operata allo spettacolo, quando come un “luna bomb” rende ancora più nocivi i prodotti cosmetici e inutilizzabili dai falsari dello spettacolo, non produce nulla di interessante o bizzarro. Sciolte le maschere degli imbonitori delle news televisive, spunta solo stanchezza e disagio. Ottima critica a qualsiasi forma di terrorismo: inutile strappare con la forza la maschera, la sua esistenza stessa sottintende il peggio. Persino i marziani di Mars attacks!, che ovviamente smontano corpi all’impazzata, sono costretti a presentarsi alla casa bianca all’interno di un corpo di donna costellato di vertigini.
Che succederebbe se una mattina, guardandoci allo specchio, scoprissimo che quello che vediamo riflesso tra un punto nero e i nostri occhi siamo noi? Non proprio noi, ma, più drammaticamente, nient’altro che noi. Questo è il passo che attende Burton, il passo che attende Edward, superando di gran lunga gli ultimi beneamati corpi di David Cronenberg e la spassionata rivisitazione chirurgica del cinema che fu (per lui) di Quentin Tarantino.

Depp (open) throat
Seguendo la cronologia cinematografica dei fatti, Johnny Depp viene risucchiato e ammazzato dalle lame di Freddy Kruger, assassino di bambini, nel 1984 (Nightmare - dal profondo della notte, di Wes Craven). Tenta poi, una volta incorporate le lame nel 1990, di non essere più un incubo per la società e soprattutto per i suoi coetanei teenager. Ma viene programmaticamente deriso e cacciato una volta che chi lo aveva accettato si rende conto che Edward non è nato mani di forbice per tagliare siepi o solleticare gli istinti sessuali repressi della società. Non è distante l’auto esilio di Willy Wonka nella sua fabbrica e nell’ambigua ricerca di un bambino a cui lasciare il testimone: immaginate un Freddy meno minaccioso e più dandy, aprire le porte della sua fabbrica e invitate i bambini a venire spontaneamente da lui… Ovviamente questi sono paradossi filmici, inestricabili ma pertinenti. Quando il barbiere Sweeney Todd torna dalla suo esilio, non solo sembra risorgere dalla filmografia stessa del regista, ma l’impressione è che in questo ritorno dal passato sia coinvolto anche Depp e il suo pirata caraibico. Nei titoli di testa di la Fabbrica di cioccolato, la cioccolata densa e roteante forma ancora una volta la spirale che mangia lo sguardo, e la mano guantata in latex di Wonka depone l’esca nelle tavolette di cioccolata: c’è qualcosa di minaccioso e conturbante, quasi un Argento disneyano. Un padre dentista-vampiro (Christopher Lee!) che scopre l’identità del figlio, dopo anni di distacco, attraverso la tormentata fase orale - osservando la situazione della sua dentatura - è altrettanto rilevante.
Anche la sessualità bloccata di Edward non si trova in una situazione migliore. Non solo non può toccare ciò che lo circonda senza tagliarlo, ma non può toccare neanche se stesso. Ancora una volta, per Burton (come lui stesso ebbe a dire a proposito dell’amato Bava) non c’è niente meglio di un’immagine per raccontare una storia. Forbici al posto delle mani. Tagli auto-inflitti sul viso.

La rivoluzione di Fleet Street
Il barbiere assassino Sweeney Todd porta tutto il peso di questi drammi passati. Si può dire che ogni film precedente sia un’elissi o una lancia che attraversa per la prima volta la spirale burtoniana nella mente e nel passato del barbiere. Che risiedesse nella testa (il Mistero di Sleepy Hollow), nelle mani (Edward mani di forbice), nel bambino nel corpo di adulto alla ricerca della sua bicicletta (Pee-Wee Herman), nella bocca (la Fabbrica di cioccolato), o persino su pellicola (Ed Wood), c’era, nell’era pre-Sweeney, ancora un barlume di speranza di poterla sciogliere. Infatti ancora si dispiega, sollecitata dal presente, nella mente dei protagonisti. Ma era già zucchero a velo su un dolcetto di carne umana. La radicale rivoluzione di Sweeney Todd rispetto a quasi tutto il resto del cinema di Burton, sta nel fatto che questa volta il passato non è qualcosa da risolvere, ma è piuttosto solidificato somaticamente (ancora una volta) sul personaggio stesso. Diventa una spinta propulsiva e selvaggia alla conquista cieca del presente. Depp in questo caso porta su di sé tutti gli effetti dei precedenti personaggi di Burton. Per la prima volta c’è un rifiuto radicale della figura femminile. Gli amati simboli sembrano abbandonati. Il passato, anche filmico, sembra essere stato solo una buona palestra di sangue per produrre vendetta. Chiuso nel suo spazio, Edward scolpiva nel ghiaccio ricordi del suo amore angelicato, donando poi non le sue opere, ma ciò che di esse di superfluo restava: tracce di neve che tutto ricopre (dal logo della 20th Century Fox al corpo della sua amata) e che va a sostituire la neve finta sui tetti che c’era prima del suo arrivo. Questo era il grande dono di Edward (ma anche, ovviamente, di Burton e di pochissimi altri che lavorano su un fantastico estremo ed espressionista) al mondo incurante. Ma rimarrà solo un racconto che la gente, distratta e impenitente, rilega nell’ambito della favola e dell’intrattenimento.

Sbornia di fantastico
Quanti altri registi considerano lo sterminato campo del fantastico un occasione unica per comprendere noi stessi ? Burton dice: solo dopo aver fatto tabula rasa di quello che ci si presenta come la realtà (contrapponendole tutto l’immaginario freak possibile) resterà la necessità del reale, raccontata e raccontabile all’infinito come una favola e non svilita e dispersa nel quotidiano. Un bambino può convincersi di essere Vincent Price fino a morirne, in una sbornia estrema di fantastico (Vincent, primo cortometraggio di animazione del regista), sbornia che l’autore ha tentato di perpetrare all’infinito. Ogni suo film è un manifesto di un fantastico spinto. Spinto ed estremo, perché infantile. Infantile nel senso del bambino che può tutto, come Federico Fellini insegna (il regista preferito da Burton, insieme a Bava), in un’infanzia oscura illuminata dal bianco nel nero delle immagini da cui non vorremo mai staccarci, pronte a resuscitare in ogni pellicola. Solo fissando la spirale che alberga in ogni opera di Burton si potrà godere di un effetto ottico perpetuo.

La fabbrica del barbiere
Da tutta questa fissità nasce lo sguardo di Sweeny Todd rivolto alle sue ritrovate lame. In una dalle locandine di Edward mani di forbice, il protagonista ammoniva la società della sua eventuale pericolosità, guardando dall’alto il paesino imbiancato ma riflettendosi nelle sue lame. Non più uno scarto della fabbrica-padre in attesa di vere mani perché incompleto, ma drastica rinuncia ad esse (“Ora sono completo!”, dice il barbiere solo quando le sue vere mani sono a contatto con i rasoi) per poter toccare il mondo ri-montandolo definitivamente, creando una parodia della struttura economica sociale che mangia se stessa. Un’economia maniaco-rituale che non guarda in faccia nessuno, alla ricerca, forse, di un'altra bocca che possa duettare con la sua disperazione. Il barbiere non seleziona neanche più ambiguamente, come Willy Wonka invece faceva, il bambino più buono da salvare dalla freakizazzione punitiva dei congegni della fabbrica. Da un bambino verrà giustiziato. Nessuna identità per i condannati, tranne quella del ballo di società. Viene meno anche il barocchismo scenografico alla post-Gaudì. Spesso Sweeney si staglia in uno spazio ampio, dove la misura delle sue braccia con lame diventa la misura che intercorre tra il mondo e se stesso. Se la sedia è l’industria della morte, la botola che porta ai forni crematori è automatica. Biscotti anziché sapone… La struttura meccanica della fabbrica è qui ancora più esemplificata. Dai gironi-stanze pasoliniani nella fabbrica-campo di sterminio, ad un meccanismo quasi completamente mentale. Il barbiere indemoniato sito in Fleet street abita più nella sua mente che altrove (verrebbe da dire della merda anziché cioccolata).

Le femmine prendono fuoco
La fissità di sguardo di Sweeney diventa spesso la nostra, e non possiamo fare a meno di guardarlo non-agire all’interno dello sciocco e coloratissimo ideale femminile della cartolina al mare. Se la rappresentante Avon cerca di cambiare il volto di Edward mani di forbice - lavorando proprio sul colore e fallendo, perché è un volto su cui non può attecchire nessuna finzione -, Sweeney arriva a distruggere la sua immagine allo specchio, perdendosi in mille crepe che trafiggono la purezza della vertigine. Il discorso con il femminile si chiude drasticamente. Le donne sono cantate come ideale angelicato, ma poi le lame meritano più attenzione. Anche se non di pezza, le femmine prendono fuoco facilmente, e quelle tenute in cella si sbranano nel delirio antropofago che investe tutta la pellicola.
Le frezze bianche della moglie di Frankestein, quasi sempre attribuite a personaggi femminili, trovano sul corpo attoriale di Johnny Depp una collocazione definitiva. Aggiungendo poi un certo disinteresse per le donne che lo circondano. La sposa non era cadavere e non è il cattivo ad averla uccisa. Il cadavere esangue, ma profondo, tenuto in piedi soltanto dal ricordo del suo amore estirpato, torna per uccidere inconsapevolmente quello stesso amore dal cranio svuotato, perché lobotomizzato, del suo stesso ricordo. Ma dalla gola squarciata della sua vuota amata, giungerà sulle sue gote - e su tutti i cerulei fantocci di Burton - un barlume di colore. Il sangue cadrà sul viso del barbiere deposto, mentre quel poco di sangue che gli scorreva in corpo gli sfuggirà via dalla sua stessa gola, tagliata da un bambino nutrito anch’esso di violenza e rancori. Un’assurda danza di morte che non trova soluzione, ma oscuri passaggi di testimone.

Il rasoio e il poliestere
Sweeney ha scippato, a suo rischio e pericolo, la lama vendicativa della Sposa tarantiniana e oppone, alla lista della spesa di Uma Thurman in Kill Bill (2003), una vendetta furiosa e romantica. Filosoficamente paradossale. Interiorizzata. Per nulla femminile. Un corpo teorico lontano dal citazionismo feticista di Quentin Tarantino. Se la tuta gialla della Thurman, presa in prestito da Bruce Lee, è soltanto un accessorio per un cinema nobilmente chirurgico e di superficie, gli abiti, le parrucche e tutti i lerci cascami della Londra vittoriana di Burton rispondono amleticamente ad una condizione interiore. Non un figlio asportato nel sonno del coma, ma un coma materico da dove non si può uscire. Sweeney va per tentativi, aprendo varchi dove non si può passare, fino a quando giunge ad un grado di ritualizzazione tale da lavorare nella ripetizione senza differenza.
Se c’è un personaggio che fa il paio con Sweeney Todd è il Bill di Gangs of New York (Martin Scorsese, 2002). “Il barbiere e il macellaio”, potrebbe titolarsi uno studio approfondito di quanto questi personaggi provvisti di lame hanno a che fare con l’antica e violenta arte del montaggio cinematografico.
Cominciando dalla doccia di Psyco (Alfred Hitchcock, 1960), dove i colpi di lama corrispondono ai tagli / stacchi inferti alla pellicola. In alcune delle più significative opere di inizio secolo sembra infatti, ad una lettura più approfondita, esserci uno scontro malinconico tra un cinema di carne e sangue (di poliestere) e il digitale: Guerre Stellari - la vendetta dei Sith (George Lucas, 2005), il King Kong di Peter Jackson (2005) e INLAND EMPIRE (David Lynch, 2006).

Action-painting Cinema
Il barbiere, come Burton, vive in un trip cromatico dove il rosso piove dal cielo prima che dai corpi. Ma, poi, nei corpi non può stare. Le parentele del barbiere sono molte, ma di certo questa “totentanz”, musicata per far regnare un silenzio tombale sulle immagini, ha qualcosa a che fare anche con con Lisa e il diavolo , (oltre che a tutta una tradizione di temi forti nel cinema italiano, vedi il Buio omega di Aristide Massaccesi, 1979), il film più complesso e stratificato di Mario Bava (1972). Forse perché è uno dei il film più lapidari e definitivi della storia del fantastico italiano e non. Fantasmi, necrofilia, romanticismo nero, voyeurismo, coltissimo e raffinato fino all’autodistruzione. Un cinema che a molti pare non andare da nessuna parte, o addirittura immobile. Non tenendo conto che, a volte, là dove si riparte occorre un motore immobile. Anche qui un giovane uccide per amore di un’immagine, per ricreare quell’immagine. La madre, il suo primo amore, non può vedere. Motore scatenante? Come Burton, Bava sapeva che la luce assorbita dalla materia non viene mai vista realmente dall’occhio, figurarsi il cinema. E che la nostra visione è un trucco. Per rivelare un trucco irrivelabile, perché giacente ad un livello infinitesimale, non si può che truccare a più non posso, lavorando in superficie. Pochissime le immagini del film prive di trucchi. Arabeschi disegnati con la luce. Illusioni di ogni tipo. La luce era la grande arte di Bava, e di fatto oggi è riconosciuto come uno dei più grandi maestri dell’action painting della storia del cinema o del semplice trucco, se preferite. Bava spiega Burton e molto del fantastico a venire, ed è per questo che Burton lo ama. La fiducia incondizionata nel segno filmico, nel simbolo, non è reverenza nei confronti del cinema, ma un atto di ribellione contro l’inganno del vero. Questo è un aspetto del fantastico più spinto. Quello che non maschera il demonio, ma è maschera del demonio, a sua immagine e somiglianza. Quello che non si può dire solo intrattenimento. Perché il grande cinema non è pensiero riflesso o paradigma di un’idea, ma un atto netto reale, chimico, necessario. Nel film di Bava, il diavolo che tutto gestiva non porta i protagonisti all’inferno ma su un aereo. Verso il sole. Ai primordi della luce.

Dentro e fuori contemporaneamente
Per quanto ancora giustificherete le debolezze con i vostri sogni?”, ha il coraggio di chiedere una dottoressa nel bellissimo Nightmare 3 - i guerrieri del sogno (Chuck russel, 1987) al gruppo dei giovani in terapia per scovare l’origine comune del proprio male.
I ribelli senza causa di Burton non sognano di isolarsi in uno spazio nascosto ai più dove ricreare le condizioni psicologicamente stabili della famiglia - come, appunto, Gioventù bruciata (Nicholas Ray, 1955) -, ma vengono essi stessi scaturiti dal loro sogno, tramutato in loro stessi. Sono tornati, come i morti di Carnival of souls (oscuro e lynchano cult del 1962 di Herk Harvey), a reclamare un poco di colore da altrettanti morti. Se la ribellione è il più grande atto di fede nell’autorità, gli “eroi” burtoniani non si ribellano affatto, anzi fanno della loro condizione fisica permanente un manifesto. Non aspirano, sono proprio di li. Forever Young. Generati da un ricordo gotico. Votati completamente alla causa dei freaks.
Qualcuno ha detto che Tim Burton è il primo regista della storia del cinema che si sia dedicato ad una gioventù disfunzionale per amarla senza volerla guarire. Siamo convinti che il pesce non sia mai uscito dalla boccia. Per i veri freaks esiste un’altra opportunità che non sia la normalizzazione. Nessun “big fish” da pescare. Il pesce è cresciuto a dismisura ed è uscito in parte dal suo involucro. È riuscito a stare dentro è fuori contemporaneamente. Per guardarsi dal di fuori, attraverso un vetro trasparente che credeva essere uno specchio.