INLAND EMPIRE

Un piede nella fuffa
di Luca Persiani

 
  id., Usa / Polonia / Francia, 2006
di David Lynch, con Laura Dern, Jeremy Irons, Harry Dean Stanton, Justin Theroux


Ci sarebbe bisogno di un'elegia funebre, un pianto accorato di fronte alla caduta di un grande narratore che, se non è ancora morto, ha ormai un piede nella fuffa. Quella fuffa che, per mezzo della smisurata intensità emotiva di ognuno dei suoi film passati, David Lynch aveva sempre tenuto a bada. Convincendoci ogni volta di avere una fontanella collegata al suo inconscio, e che tutto quello che raccontava veniva direttamente da lì. A lui bastava girare il rubinetto, e si riversava fuori una materia oscura, violenta, delirante. Ma sempre intimamente coerente, emozionante, visionaria. David Lynch era la prova vivente della necessità dell'esistenza dell'Autore di cinema in senso più estremo. Quello che lotta contro i compromessi del linguaggio e dell'industria per affermare una poetica ardua e spiazzante, ma piena di senso. Necessaria.
INLAND EMPIRE, invece, non racconta nulla: né una storia, né un'emozione. Non detta un ritmo. Non concede una visione. E' un contenitore pieno di kipple - termine coniato da Philip K. Dick - la roba inutile che si accumula nelle nostre case e finisce per soffocarci, riproducendosi spontaneamente. Magazzino di kipple dell'immaginario, INLAND EMPIRE sembra un modo per pulire il filtro della fuffa. Quella depositatasi fino a questo momento durante il processo grazie al quale Lynch ha mantenuto lindo il flusso dell'inconscio. Come quando si pulisce il retino a protezione dello scarico della doccia da peli, capelli e altri residui corporei. Un operazione noiosa, fastidiosa e anche un po' disgustosa quando i detriti in questione sono nostri. Figurarsi poi se sono altrui, come nel caso di INLAND EMPIRE. Lynch pulisce il suo filtro, trova la sporcizia tanto interessante quanto il resto, e coinvolge nell'operazione lo spettatore. Merda d'artista, ma senza ironia. Senza provocazione. Con la semplicità e l'onestà disarmante di sempre, Lynch mette in piedi un'operazione in cui sembra credere completamente. Ma la sua canzone stavolta appare tanto stonata e ripetitiva da non poter toccare il pubblico in nessun modo. Scuro, statico, sgraziato, snervante, INLAND EMPIRE ispira tragicamente un mondo di privazioni sensoriali ed estetiche. Un mondo che in un colpo annulla ogni piacere, ogni necessità, ogni disponibilità dello spettatore a seguire un cinema da sempre arduo, ma anche - fino ad ora - generoso e, perfino nei suoi recessi meno comprensibili e più inusuali, con una vocazione all'intrattenimento - narrativo e figurativo - schietta e forte.
Ci sarebbe bisogno di un'elegia funebre, perché con INLAND EMPIRE muore un pezzo del cinema contemporaneo. E' il segno di un terrificante punto di non ritorno, del franare di una delle ultime isole di cinema forte e originale, dell'inaridimento di una delle poetiche più ispirate e libere. Lynch appare perso nel suo stesso inconscio, smarrita ogni lucidità istintiva, gli occhi sbarrati in confusione e paura, l'emozione paralizzata da un'afasia estetica violentissima. Esattamente come la protagonista di INLAND EMPIRE, che annaspa nel vuoto senza storia, senza centro, senza parole. Ammantata da uno sconcerto incomunicabile, le sue emozioni non possono toccare lo spettatore, e rimangono lì, affogate nell'immagine nebbiosa del digitale a bassa definizione. Sparato sullo schermo grande del cinema, lascia lo spettatore ad implorare, come un pensionato che rimpiange pateticamente il passato, le "belle immagini" di una volta. Se mai ci fosse necessità di un manifesto contro i limiti del cinema digitale, INLAND EMPIRE lo incarnerebbe con violenta precisione. Almeno quanto Collateral e Miami Vice lo sono invece a favore. Anche perché la bassa definizione che Lynch tanto esplicitamente apprezza nelle dichiarazioni pubbliche a proposito del film, non può essere verosimilmente una qualità estetica originale o interessante. Non oggi, in un mondo dove per "godere" del lo-fi digitale basta accendere il computer e collegarsi ad uno dei tanti archivi di filmati amatoriali di Internet. O accendere la televisione e guardare un telegiornale. O un programma di infotainment. O, addirittura, fare una ripresa col proprio telefonino. Modalità in cui il segnale video, nel novanta per cento dei casi, trova una giustificazione comunicativa e una sensatezza che mai, neanche una volta, ritroviamo nei 172 interminabili minuti di INLAND EMPIRE. Bisognerebbe aprire un capitolo a parte sulla ricollocazione di Lynch da parte di qualche critico nel medium magmatico e scontornato della videoarte (come curiosamente era stato fatto da qualcuno anche col Franco Battiato di Musikanten) - ma INLAND EMPIRE è stato presentato ad una Mostra Internazionale di Cinema. Non è un'installazione, un progetto alternativo, un esperimento. E' cinema. Non ci sono alibi. Ed è doveroso parlare del suo fallimento in questo campo.
Ci sarebbe bisogno di un'elegia funebre, ma una mente è una cosa terribile da sprecare, e sulla tristezza per il lutto vince lo sconcerto per la decadenza. Come l'Henry di Eraserhead, il cinema di Lynch si ritrova con la testa decollata e la materia cerebrale utilizzata per confezionare gomme da cancellare. Quelle che si trovano al termine di una matita. In Eraserhead, a suggello di questa mutazione, un personaggio provava l'efficacia della mente che cancella con un gesto terribile e folgorante. In quel film, della testa di Henry non rimaneva che polvere che sfrigolava controluce. Con INLAND EMPIRE del cinema di Lynch non rimane che fuffa pixellata nel buio.