la Fabbrica di cioccolato

Burtoniana shock
di Giulio Frafuso

 
  Charlie and the Chocolate Factory, Usa, 2005
di Tim Burton, con Johnny Depp, Freddie Highmore, Melena Bonham Carter, Christopher Lee, Noah Taylor


Dimenticatevi il primo film tratto dalla fiaba di Roald Dahl: Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato era un’operina piuttosto inerme e confusa nella regia, che basava il proprio valore sulla ridondanza delle scenografie e sulla grande prova d’attore di Gene Wilder. Questa nuova trasposizione targata Tim Burton è invece un lungometraggio architettato e realizzato con una precisione impressionante. Sotto il punto di vista puramente visivo ci troviamo di fronte ad un vero tripudio di colori e luci, in grado di arrivare ad affascinare lo spettatore; questa d’altronde non sarebbe certo una novità, vista la capacità di Burton di saper dotare ogni sua opera di una pregnanza estetica di rarissima efficacia: la vera novità di questa pellicola sta nell’aver proposto una visione molto meno “dark” rispetto alle sue opere migliori, ma sotto molti punti di vista ancor più complessa. Charlie and the Chocolate Factory poggia la sua importanza infatti su un impianto estetico sfavillante e gelido allo stesso tempo: dalle scene ai costumi, dalla fotografia del grande Rousselot alla direzione di Burton, tutto si muove verso la creazione di un universo in superficie colorato e giocoso, ma dal cuore cupo ed inquietante. In molti momenti del film quest’anima nera viene fuori, e lascia un segno indelebile nella psiche di chi guarda; gli stranianti numeri musicali degli Umpa-Lumpa ad esempio scandiscono con chirurgica dedizione il mento di resa dei piccoli ed incarogniti concorrenti, bambini a loro modo deviati ed allontanati dal premio finale perché inconsciamente troppo simili al protagonista Willy Wonka. Il gioco burlesco a sulfureo che si instaura tra lo stralunato mentore ed i piccoli mostriciattoli infatti sembra più un bisticcio tra piccoli che si giocano piuttosto che un rapporto adulto/bambino; non è di certo un caso se quello che arriverà in fondo alla giostra, e che alla fine insegnerà a crescere anche al povero e confuso Johnny Depp, è proprio l’unico “adulto” della compagnia, il magistrale Freddie Highmore che interpreta Charlie. Il cineasta sembra essere riuscito nell’intento di coniugare la sua vena poetica con un discorso sempre più “adulto”, che in questo lungometraggio trova la sua portentosa cifra stilistica nello spettacolo magico e straniante che ci si presenta di fronte agli occhi. La nuova maturità di Burton si trova anche nella sua giocosa capacità di citare capolavori della storia del cinema: questa volta tocca addirittura a Stanley Kubrick ed al suo 2001: Odissea nello spazio.
La fabbrica di cioccolato si presenta dunque al pubblico come un giocatolo iperbolico e scoppiettante, che contiene in sé un’autentica e sana vena eversiva, capace in alcuni momenti di sfociare nella purezza cinematografica del delirio organizzato: Tim Burton ha costruito così una “macchina da sogni” che non rinuncia alla contraddizione ed all’inquietudine dell’incubo: nonostante stiamo parlando dello stesso autore, ci sembra che si sia lontani anni luce dalle “favole” di Edward mani di Forbice o Ed Wood. Dopo la piccola svolta del recente Big Fish il cineasta sta continuando un discorso di indagine all’interno di un universo molto più complesso ed inquietante, adoperando come al solito il registro a lui più congeniale, quello del fantastico; rispetto alle sue pere precedenti il regista sembra aver acquistato una lucida e spietata consapevolezza nel raffigurare i suoi personaggi: questa volta, prima tra tutte, Burton sembra non amare il suo protagonista Willy Wonka –e Depp è magnifico nel rendere con sottigliezza questo scarto -, ma intende usarlo come paradigma per raccontare uno spiazzamento esistenziale, uno stridore acidulo che si insinua tra le maglie di questo portentoso spettacolo, per renderlo ancora più affascinante. Come le migliori fiabe, La fabbrica di cioccolato ed il suo grande autore rattristano e, in fondo, spaventano anche un po’. Magnifica opera di cinema.