Steven Spielberg
Brave New (Cruel) World
di Adriano Ercolani

 
 
Negli ultimi anni abbiamo assistito all'evoluzione nello stile e nella poetica di alcuni tra i più grandi cineasti contemporanei, che, giunti ad una veneranda età e ad un punto della loro carriera piuttosto avanzato, si sono notevolmente addolciti, sia nelle tematiche portate sullo schermo che nella messa in scena, tanto da essere arrivati a girare piccoli grandi "divertissement", ugualmente preziosi a livello cinematografico ma assai più "leggeri" (e, perché no?, anche frivoli) rispetto ai grandi capolavori del passato. Tra i nomi che ci vengono subito in mente possiamo citare Woody Allen, Robert Altman, oppure i maestri francesi Jacques Rivette e Alain Resnais; opere come La Maledizione dello scorpione di giada (The curse of the jade scorpion, 2001), Gosford park (id., 2001) o Chi lo sa? (Va savoir?, 2001) sono senza dubbio lavori di primissima qualità artistica, ma altrettanto evidentemente testimoniano una vena più leggera e briosa che i rispettivi autori hanno sviluppato in quest'ultima fase.
Quello che sta invece capitando, a nostro avviso, alla carriera di Steven Spielberg, Ë esattamente il contrario: la sua visione del mondo, che secondo noi si è sempre rivelata in maniera più manifesta nei suoi film di fantascienza, si sta gradualmente incupendo, fino a giungere a dei livelli di pessimismo prima del tutto inimmaginabili per l'autore; se infatti paragoniamo capolavori come Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close encounters of the third kind, 1977) o E.T. (E.T. - The extraterrestrial, 1982), o anche il goliardico Hook (id., 1991), ai suoi ultimi due film, A.I. - Intelligenza artificiale (A.I. - Artificial intelligence, 2001) e Minority Report (id., 2002), la differenza di visione e di contenuto non possono non saltare immediatamente agli occhi. Per molto tempo Steven Spielberg Ë stato accusato dai suoi detrattori di essere un regista "buonista" e conciliatorio, capace di offrire al suo (enorme) pubblico spettacoli di grande impatto visivo ma talvolta superficiali, o meglio edulcorati di situazioni o sentimenti che potessero turbare eccessivamente lo spettatore comune. Acclamato metteur en scene, il cineasta non è mai satto trppo apprezzzato per la profonditàconcettuale e contenutistica dei suoi film. Opere preziossime come Il colore viola (The colour purple, 1985) o L'impero del sole (Empire of the sun, 1987) non sono state apprezzate dalla critica quanto avrebbero dovuto propriro a causa di questo fraintendimento.
Scrollatosi di dosso questa - per lui, non per noi - fastidiosa etichetta grazie soprattutto a Schindler's list (id., 1993), considerato un po' il film della svolta, Spielberg ha da qualche anno iniziato a girare opere del tutto differenti rispetto al passato, cariche di un pessimismo di fondo a lui prima sconosciuto; a partire da Salvate il soldato Ryan (Saving private Ryan, 1998) il suo discorso filmico si è fatto decisamente più cupo e povero di valori positivi, fino ad arrivare all'universo futuristico di A.I. e Minority report; è precisamente con queste due pellicole che l'autore ha sterzato decisamente verso un'immagine scura, macabra e non conciliata della propria arte cinematografica.
Quello che distingue i due film è, prima e soprattutto, il fatto che sono ambientati nel futuro, cosa mai successa nei precedenti lungometraggi: ma l'immagine che l'autore intravede per i nostri giorni a venire non Ë quella solare e pacificante delle sue opere passate, bensì un mondo dominato dal grigio, da atmosfere lugubri e piovose, dove la desolazione non è soltanto una cifra visiva stilistica ma, soprattutto, umana: i rapporti tra le persone sono aleatori, contrastati, spesso ingannevoli; la mancanza di un legame portante, che giustifichi e riempia la vita di un essere umano, èil tema principale sia per il piccolo androide in cerca di mamma di A.I. che per poliziotto privato del figlio di Minority Report; questo disagio interiore viene poi inserito da Spielberg in un mondo che sembra perfetto, ma che in realtà si rivela carico di angoscia e di incognite, dove anche gli strumenti di conoscenza più usati possono rivelarsi imperfetti (i precog, l'oracolo, i colleghi di lavoro, gli stessi genitori); questa incertezza costante ed angosciante che pervade le due pellicole è stata resa dal regista - e dall'ormai fedele colalboratore alla fotografia Janusz Kaminski - attraverso la rappresentazione di una realtà molto vicina alla nostra (solo tecnologicamente più avanzata) e per questo maggioremente oppressa (e opprimente), non libera; nel futuro saremo ancora liberi di provare emozioni? Questo sembra volerci presagire la squadra di polizia di Tom Cruise, che nella prima, straordinaria sequenza del film, blocca un impiegato qualunque - come potrebbe diventare ognuno di noi - prima che commetta un delitto passionale. Lo stesso, in fondo, è il problema di fondo che costringe il piccolo robot di A.I. alla ricerca infinita dell'amore materno. Eppure queste necessità primarie, seppur foondamentali, non sono che un aprte del discorso critico che l'autore, a nostro avviso, vuole tentare di trasporre nelle due opere. I temi che si insinuano pił in profondità rispetto alla semplce narrazione, e che pervadono soprattutto Minority report sono ben più vasti: Cosa ci verrà vietato in futuro? Ci verranno impedite la rabbia del tradimento, la gioia della vendetta, il dolore della perdita? Dove finiranno principi come il libero arbitrio, la moralità soggettiva, il diritto all'errore?
Questo dunque, il "nuovo mondo" che il papà di E.T. ha portato sullo schermo, e ci ha proposto spaizzandoci non poco; una simile visione dell'era futura ce la saremmo sinceramente aspettata da altri cineasti, non da lui; per questo, probabilmente, l'abbiamo ancor di più apprezzata; certo, l'influenza di grandi "pessimisti" come Stanley Kubrick e Philip K.Dick ha di certo influito sull'esito finale di A.I. e Minority report; la loro "utopia negativa" è stata decisamente trasposta sullo schermo in tutta la sua efficacia; ed è proprio per questo motivo che i due lungometraggi sono, in tutto e per tutto, anche frutto maturo del genio di Spielberg, capace di mostrare a noi spettatori anche il suo lato più scuro e sfiduciato senza perdere in incisività e maestria.
Rimane adesso un dubbio che ci attanaglia: cosa dobbiamo attenderci dunque dal nuovo Prova a prendermi, tuffo nel passato degli anni '60?