A.I. - Artificial Intelligence

Doppia visione
di Luca Perotti e Adriano Ercolani




Venezia 58 - 2001
  A.I. Artificial Intelligence, Usa, 2001
di Steven Spielberg, con Haley Joel Osment, Jude Law, Frances O'Connor, Brendan Gleeson, Sam Robards, William Hurt

Sopravvivenze e desiderio
di Luca Perotti

L'occasione è giunta per riflettere su vecchi assilli mai sopiti. Quel Pinocchio, così assiduamente menzionato nella sceneggiatura di Incontri ravvicinati del terzo tipo, si lustra il naso e si mette al servizio di Spielberg. Il burattino-Mecha concepito da un Geppetto Hi-Tech che lavora alla Cybertronics invade la dimora avveniristica degli Swinton, percorsa da Spielberg con mano kubrickiana: guardinga, retrò, vibrante di suspense; David subentra come un intruso che appare in ogni angolo. Ancora unimprinted. Ancora totalmente Mecha.

Mamma, tu morirai?
Nell'istante in cui David pronuncia la parola "mamma" in seguito alla procedura di imprinting, l'embrione Orga penetra nell'anima meccanica di Pinocchio-David, l'interfaccia domestico, l'inquilino del mondo di confine tra computer science e realtà. Il suo ruolo di ponte elettrico è eloquente quando riesce a riprodurre la voce del padre che reclama Monica all'altro capo del telefono. I lineamenti congelati in una paresi informatica; la conturbante rivelazione del suo incurabile ibridismo. Dal momento in cui pronuncia la formula di imprinting, il burattino comincia il suo tentativo impossibile di metamorfosi organica. La coscienza della morte della madre è il primo passo verso l'inesorabilità del destino che il gigolò Joe gli ricorderà in tutta la sua crudeltà prima di abbandonarlo tra i ghiacci della Manhattan sommersa: "noi ci saremo sempre, per questo ci odiano". David ci sarà sempre, la sua mamma no. Lo spettro della solitudine cosmica si incunea nei suoi chip umanizzati. All'interno del nucleo familiare rimpolpato dal ritorno dal coma di Martin, David sperimenta la competizione con il fratello acquisito; l'invidia comprensibile del Caino Orga (ma sorretto da vistose protesi ferrose) svilisce il suo paradiso ideale, cioè lo speciale ed esclusivo legame con la mamma. E' questo che David andrà a cercare di riconquistare, inseguendo l'utopia della fata turchina tra le bruttezze di un universo medievale che rivela la sua massima atrocità nel kitsch chiassoso di Flesh Fair. La provocazione del fratellastro lo costringe all'umiliazione di un'operazione a cuore aperto, alla visibilità dei suoi inumani ingranaggi; quella dei suoi coetanei lo risucchia nel fondo di una piscina, ad occhi spalancati, terrorizzato e isolato perché immortale, sprovvisto della possibilità del trapasso mentre l'umanità si stringe attorno al cagionevole, indifeso Martin. Nemmeno la ruggine come sintomo della sua sofferenza. Una facoltà anche questa appannaggio di Martin, l'ominide dai tratti Mecha. David vive sulla sua pelle la propria anormalità, la subisce tradotta nel rimprovero severo del padre come conseguenza del ricatto meschino, tuttavia umano e giustificabile di Martin che lo costringe a deturpare l'acconciatura della mamma. Il mantenimento del paradiso-benessere, obiettivo del suo algoritmo interno, prevede l'ausilio di qualsiasi azione contro gli imprevisti. Da bravo computer, David svolge l'istruzione necessaria per la compliazione del suo algoritmo: tagliare capelli=Mamma mi vuole bene. Con i disegni mostrati a Monica, David fa sfoggio della maturità con cui riesce a distinguere i ruoli all'interno della famiglia: padre, madre, Martin, David=Orga; il supergiocattolo Teddy=Mecha. E a smuovere le corde emozionali della mamma. David macchina perfettamente programmata a sua insaputa possiede dentro di sé la capacità di commuovere. Il sentimento artificiale pareggia quello naturale che nasce e si alimenta nella quotidiana crescita di un bambino vero. Un altro inconveniente, però, è dietro l'angolo. Per evitare la distruzione di David, Monica si sbarazza di lui nel bosco: l'interruzione più complicata da gestire per il computer-David. L'abbandono e la perdita della figura materna stravolgono l'algoritmo che, paziente e testardo, elabora il modo per ritornare allo stato ideale del sistema. Scaraventato dal paradiso ideale direttamente nel braciere della sgradevole realtà, David, mano nella mano con Lucignolo-Joe e assimilata la lezione collodiana, intuisce che l'approdo alla ritrovata felicità coincide con l'incontro con la fata turchina, per sanare l'emorragia organico-meccanica conseguente al tradimento della mamma, tuttavia già perdonata e di nuovo agognata.

Cammina Cammina...
Non è solo Monica a lasciare David in mezzo al bosco raccomandandolo di seguire la retta via. Lo sguardo circospetto e rarefatto, il gusto retrò dell'avveniristica casa degli Swinton, i lenti zoom in avanti di matrice kubrickiana lasciano interamente il campo all'estetica Spielberghiana. Più che un addio, quello di Stanley a Steven è un arrivederci al terzo atto quando le due traiettorie si risfioreranno, confluiranno per poi diradarsi definitivamente. Monica abbandona David; Stanley abbandona Steven. E il film Mecha, artificiosa e artificiale riflessione etica giocata sulla sospensione del tempo e dello spazio innesca il carnevalesco tragitto orga di David e di A.I., in una simbiosi film-personaggio. L'organicità inseguita da David ricalca la metamorfosi attuata dal film stesso che trapassa da un'estetica di stampo kubrickiano-mecha, ad una vivida, carnosa fisionomia orga: incongrua, diseguale, difettosa. Lo sguardo di Spielberg pretende un'identificazione con il più debole che nel teatrino dei burattini, la pacchiana e fracassona celebrazione della carne, sperimenta la persecuzione di Schindleriana memoria. Come la bambina con il cappottino rosso, recipiente-emblema di grazia e innocenza, David si muove e supplica in un olocausto di sgorbi, braccati e sterminati in una vendetta plateale. Ai denti e ai capelli degli ebrei, ecco corrispondere i pezzi di ferro ammucchiati tra cui gli angariati Mecha, vecchio e nuovo tipo, pescano le protesi sostitutive. Nel caos infernale e predicatorio di Flesh Fair, David viene salvato da una bambina e da un mangiafuoco che lo liberano spingendolo sulla via del paese dei balocchi dove insieme al suo Lucignolo interrogherà l'ambiguo Dr. Know per ottenere l'ausilio magico dell'ambita fatina. Tra le fauci di una gigantesca balena, la New York post-scongelamento, David reincontra il suo Geppetto, stupefatto dal ragionamento logico della sua creatura meticcia, il prototipo già in via di clonazione con tanto di corrispettivo femminile: Darlene. "I am; I was" gli sussurra Gigolo Joe mentre viene catturato. David si inabissa nell'oceano amniotico insieme all'inseparabile e saggio supergiocattolo Teddy e come un miraggio gli appare la figura della fata, posticcia icona da Luna Park, sul punto di animarsi ma condannata all'inazione per l'eternità. Come David, fisso con gli occhi spalancati nell'attesa. He is; He was; He will be.

L'eternità e un giorno
Anche lo sguardo di Spielberg si spalanca, finalmente libero e distillato. Si espande laggiù oltre l'infinito contemplato da traslucide e longilinee sagome mai congedatesi dalla sua mente. E il tempo si riblocca per l'approdo definitivo nell'estasi cinematografica di David/Spielberg. Affrancatosi da Kubrick, fornitore del Dna necessario per il concepimento-clonazione di A.I., Spielberg si sgancia da ogni pudore e da ogni controllo raggiungendo l'annullamento nel nirvana. Nel suo Nirvana. Il paradiso riappare, clonato anch'esso grazie ad un altra cellula: i ricordi di David tradotti in immagini sulle silhouette incorporee delle evolutissime creature. Esse non sono extraterrestri, ma il punto di perfezione a cui sono arrivati i Mecha dopo duemila anni, continuando a procrearsi dopo la scomparsa degli umani.
L'apocalisse mondiale così come la poetica spielberghiana , con lo stesso vigore del film, ha il suo approdo nello stato di desiderio puro, svincolato da ogni fattore temporale e spaziale: nel ricongiungimento con la mamma, universo privo delle figure maschili, e soprattutto sfornito definitivamente di Orga; solamente gli automi-registi artificiali a reggere le redini di una storia di un giorno che si conclude con la morte della madre e il sonno sognante, eterno (?) di David. David, illuso di essersi trasformato in Orga vivrà un eternità da Mecha immerso nelle immagini oniriche. E amando l'unico Orga che gli è stato detto di amare: Monica. Lo stato del sistema è stato riattivato. Spielberg, ormai senza freni, si cala nell'empatica goduria di un'estasi irreversibile. Come David dopo il protocollo di imprinting, Spielberg non torna indietro e si lascia cullare dal vortice consegnandosi ad un punto di vista vertiginoso.

Orga Park
Dal sangue di una zanzara racchiusa in un fossile, fu possibile ricostruire e far risorgere, a Jurassic Park, le gigantesche creature ormai estinte. Da una ciocca di capelli strappati alla madre è possibile far risorgere l'oggetto d'amore dell'ultimo Mecha rimasto sulla Terra e far dunque rinascere gli umani. L'evoluzione per Spielberg asseconda sempre la memoria di chi non c'è più e che si necessita rivedere e rivivere, per poi dirigersi oltre.
Fondamentale è il possesso del piccolo frammento, il seme per riconcepire l'assente. Dal progetto allo stato embrionale di A.I., Spielberg ripristina Kubrick per poi distaccarsene completamente; dalle immagini mentali di David, gli eterei Mecha, razza di grado evolutivo successivo perché giunti sulla Terra dopo l'apocalisse, così come gli uomini giunsero dopo i dinosauri, intendono resuscitare gli orga. Il bambino-robot David è speciale per loro perché è stato creato da esseri umani: è come una reliquia da idolatrare, un monolite organicizzato(!). L'interrogativo etico sulla clonazione si pone, per Spielberg, in termini di milioni di anni. L'intelligenza artificiale appartiene a coloro che con il magico ausilio dei nuovi mezzi dimostrano il proprio potere attuando la resurrezione di coloro che non ci sono più, che non dovrebbero più esserci perché uccisi dalla Natura e dalla Storia: i dinosauri, i nazisti, gli ebrei, Kubrick, gli Orga.
Lo strumento è ovviamente, inesorabilmente sempre il cinema: congegno di memoria artificiale da sempre al servizio dei sognatori-Orga. Non a caso Spielberg conclude la sua riflessione al centro di una casa circolare dove la mamma e David in uno stato di benessere estatico stazionano come una pupilla intorpidita, ormai in balìa di registi-macchine, ennesimi interfaccia al servizio della memoria. E il bambino-robot, burattino intelligente e sofferente alla ricerca dell'amore si propone come messia di questa evoluzione.

La Genesi è sempre nell'occhio.
Già nel primo atto, a tavola, poco prima della risata artificiale e robotica, Spielberg incastona David al centro del lampadario-aureola: pupilla Mecha solitaria, raggiunta alla fine del percorso al centro dell'occhio-casa dall'altra pupilla, questa volta Orga: la madre. Entrambi funzionano da reperto per gli automi superiori per il rifiorire di un mondo ormai estinto. Ma che può essere ricreato artificialmente dal connubio Orga-Mecha. Involontariamente, Kubrick con la sua morte, ha fornito la materia e il pretesto per un film sulla clonazione di cui è egli stesso protagonista indiretto. La sua memoria, elaborata da Spielberg pone degli interrogativi irrisolti, forse irrisovibili laggiù nel futuro anteriore e immenso dell'evoluzione, tanto da ripensare il feto gigantesco di 2001 come l'embrione di David. E se non ci fosse un certificato di morte ad asserire dell'avvenuto trapasso di Kubrick, potremmo congetturare che, come Elvis, avvistato abitualmente in un'isola delle Hawaii, anche Kubrick volge il suo sguardo sornione sulla sua ultima opera, postuma (?) in un qualche anfratto atemporale. Magari insieme a Elvis (già di per sè quotidianamente, continuamente clonato dai migliaia di sosia impersonators in tutto il mondo). Magari in un famigerato Orga Park.

Mastro Geppetto Spielberg
Una delle figure centrali nella filmografia spielberghiana è l'industriale intenzionato a fare del bene, emblema di un'umanità che rincorre la propria superbia scientifica. Come Hammond, il megalomane inventore di Jurassic Park, ingenuamente voleva mostrare agli uomini le immagini del loro inconscio, pescare nell'immaginario preistorico quelle figure mai viste né incontrate e riproporle in un rigurgito irrispettoso della Storia. Come Schindler che vuole salvare dall'estinzione un gruppo di giudei, che per le sue vedute naziste, sono, per definizione, l'anello cancellabile nella sopravvivenza del più forte. In entrambi appare, come afferma Franco La Polla la raffigurazione spielberghiana di un'industria sana. L'ideale umanitario e populista di Spielberg prevede, o meglio auspica, un capitalismo non selvaggio, in cui le intenzioni conscie sono sì apprezzabili, ma infime rispetto agli avvenimenti troppo più grandi di loro. Allo stesso modo, il Dottor Hobby di A.I. vorrebbe fornire all'umanità un supergiocattolo in grado di amare e essere amato, di sollecitare la responsabilità degli esseri umani. Ma le sue buone intenzioni creano mostri e apocalittici risvolti perché come Hammond pretende troppo dalla sua buona fede travestita da egoismo, che provoca l'infernale reazione della Natura, sensibile nel castigare chi intende inserirsi asincronicamente nei meccanismi implacabili della Storia dell'uomo, così Hobby provoca la reazione ansiosa della sua creatura, considerata oggetto per un ideale scientifico troppo alto ed eticamente discutibile. Per lui David è unico e speciale ma il suo laboratorio è già pieno zeppo di suoi cloni. Anche per i watussi venuti dal futuro David è soprattutto il germe per studiare l'uomo che non c'è più o il Mecha che non c'è più. E sebbene essi decidano di concordare con il robottino l'esperienza di resurrezione della madre avvertendolo sui pro e sui contro, la loro considerazione rimane invariata: l'unicità di David è sacra ma pur sempre oggettiva, empirica. David, invece, contaminato di umanità, catechizzato dall'imprinting sente di essere unico, originale, ineguagliabile. Non clonabile. Unicità soggettiva figlia dell'anima e non del cervello.
La risposta eticamente accettabile e rispettosa non è nemmeno nelle menti immense dei robot tanto evoluti da sembrare extraterrestri. La risposta giusta dovrà attendere, forse, un ulteriore stadio evolutivo. Lo stadio in cui anche i Mecha saranno a loro volta sostituiti, come i dinosauri e come gli uomini, da una razza ancora più avanzata che senza rinunciare alla comprensione della natura, al progresso e alla propria temporanea centralità, accetterà di essere un semplice frammento nell'itinerario sconfinato dell'universo dal quale si congederà a sua volta. Con la coscienza di non essere a immagine e somiglianza di nessuno.


Intelligenza artificiosa?
di Adriano Ercolani

Prologo
Questo film è troppo piccolo per contenerci tutti e due...

Probabilmente per la prima volta nella sua lunga e folgorante carriera, Steven Spielberg ha avuto a che fare con un progetto di portata troppo grande per lui, che pure a nostro avviso è uno dei registi più intelligenti dell’intero panorama cinematografico. Prendere in mano il progetto sfumato del “maestro” Stanley Kubrick, girarne una pellicola il più possibile conforme alle direttive lasciate in eredità dal grande vecchio, e cercare di farne comunque un film personale, o meglio un film “alla Steven Spielberg”; questa è la travagliata ed eterogenea genesi di questo colossal fantascientifico affascinante ma squilibrato, poderoso ma sofferente. Alla fine A.I. risulta un’opera di incredibile fascino visivo e concettuale (almeno nelle premesse), ma vistosamente piena di scompensi, sia narrativi che visivi. Soprattutto la sceneggiatura, scritta dallo stesso Spielberg ( che non vi si cimentava dai tempi di Incontri Ravvicinati, e si capisce...), mette talmente tanta di quella carne al fuoco da risultare poi un immenso minestrone indigesto e prolisso. Altra grossa incoerenza dell’opera sono i vari registri che l’autore adopera nel mettere in scena tutte le vicende contenute nel film: seppur visivamente accattivanti, non tutte le parti di A.I. risultano congeniali alla vena creativa del regista, che sbanda paurosamente quando deve affrontare momenti in cui il grottesco ed il macabro prevalgono nella messa in scena. Stiamo comunque correndo troppo, e cerchiamo di andare con ordine nell’analizzare le numerose facce di questo imponente “monstrum” cinematografico...

Parte I
Mammina, mammina cara!

Dopo la prima mezz’ora di film, eravamo in piedi sulla poltroncina del cinema ad urlare al capolavoro. Spielberg dirige un prologo magnifico, con William Hurt (in gran forma) che illustra agli azionisti della società che fabbrica robot perché vuole costruire un bambino artificiale che sappia anche amare oltre che servire. Le luci sono glaciali, sospese, ed illuminano interni impersonali, quasi squallidi; la fotografia dell’ormai fido Janusz Kaminski è da togliere il respiro; sembra un film del tutto minimalista, ed a pensarci bene lo è. Venti mesi dopo, il bimbo automatico arriva a casa della coppia che ha il suo vero figlio ibernato a causa di un virus. Tutta la parte dell’accettazione del piccolo David da parte della neo-madre Monica è clamorosamente tagliente, distaccata, ed al tempo stesso commovente; si capisce benissimo che l’autore si è studiato a menadito il progetto-Kubrick per questo film, ed in questa porzione di pellicola lo porta avanti a meraviglia, senza sbavature narrative od esagerazioni stilistiche. Anche quando torna a casa il figliol prodigo Martin e tra i due pargoli si innesca subito un rapporto di complicità-competizione, la pellicola mantiene un tono neutro davvero esemplare. Alla fine Monica decide di abbandonare David nel bosco, ed allora esce fuori davvero la grande recitazione di Haley Joel Osment, che ci spezza il cuore nel momento in cui il piccolo capisce che sarà lasciato solo a vagare nel bosco. Fin qui grande cinema, partecipe e rarefatto al tempo stesso (e soprattutto sempre memore, forse fin troppo, della lezione kubrickiana), ottimi attori, magnifica regia. Poi David si avventura nel bosco...

Parte II
Alla fiera dell'Est, per due soldi, un robottino mio padre comprò...

In tutta la parte centrale dell’opera, quella cioè della Fiera della Carne, dell’incontro con Gigalo Joe, di Rouge City e dell’incontro col dottor Know, Spielberg tenta di girare la storia accostandosi a dei registri narrativi che non gli sono mai stati congeniali, e fallisce a nostro avviso piuttosto vistosamente il colpo: la messa in scena grottesca della caccia nel bosco, e poi di tutta la parte nel mattatoio di androidi, è abbastanza innocua dal punto di vista visivo e slabbrata sotto quello narrativo. In alcuni momenti poi l’autore ci è parso voler immettere dei sottotesti “democratici” e libertari fuori luogo e troppo semplicistici: aleggia così in tutta questa parte un certo moralismo eccessivamente melenso, tipico di tutta una certa produzione spielberghiana non sempre omogenea. In questa seconda parte poi viene introdotto il personaggio di Gigolo Joe, che non si capisce bene a cosa serva, costantemente diviso a metà tra stucchevoli tirate filosofico-morali ed una perenne declamazione delle sue attività amatorie. Jude Law presta fisico e discreta abilità interpretativa a questo personaggio, ma di certo non riesce a risollevarne le noiose sorti. Il Dongiovanni meccanico accompagna David nel suo pellegrinaggio fino alla Manhattan sommersa, passando però prima per una Rouge City bella da vedere quanto inutile nello svolgersi della trama, e per un confronto con il dottor Know (forse la cosa peggiore del film), che altro non è che un cartoon che si traveste da Einstein... Qui A.I. funziona davvero a tratti, ed è sostenuto soltanto dalla grande perizia tecnica di scenografi, costumisti, architetti ecc. ecc.; manca il senso narrativo delle migliori opere di Spielberg, che non riesce a essere stringato né convincente. Poi comunque il bambino meccanico arriva a New York...

Parte III
Altro che fatina azzurra, riecco gli alieni!

Ed eccoci giunti alla fine del viaggio, dove il regista vuole chiudere i giochi con la vicenda e vuole farne un film a tutti gli effetti “spielberghiano”. Ebbene, in quest’ultima trancia di pellicola l’autore riesce nel difficile risultato di dare insieme il peggio ed il meglio di sé. Momenti di cinema altissimo, visivamente prezioso e commovente, si alternano con le lungaggini che hanno tormentato tutta la durata della pellicola, e soprattutto con il solito deus-ex-machina che arriva e risolve la situazione; d’accordo, stavolta non sono alieni ma una specie di robot ultra-avanzati: ma perché farli allora uguali a praticamente tutti gli E.T visti fino adesso, in particolare quelli di Incontri ravvicinati del terzo tipo? A parte questo però l’autore ritrova in parte la grande vena poetica persa nella prima parte, e la mescola con momenti di grande rigore narrativo (dai tempi felicemente autoriali, come nel caso delle suppliche di David alla statua della fatina immersa in fondo al mare). Tutta la scena del ritorno del bambino nella casa materna, con le immagini sature e sgranate, è un colpo al cuore, come d’altronde l’ultima giornata passata con la mamma ritrovata: sarà pure romanticismo facile, ma non si può dire che non centri il bersaglio.

Epilogo
Non so che dire...

Giunti alla fine del viaggio all’interno di A.I. dobbiamo confessare al lettore di saperne meno di quanto siamo partiti. Tutto quello che ci eravamo aspettati fosse questo film è stato poi confermato dalla visione; il fatto però è che Intelligenza Artificiale è anche molto di più. Pieno di difetti, di incongruenze stilistiche e tematiche, strabordante di invenzioni visive fino all’eccesso, il film però è allo stesso tempo un’epopea affascinante e tenebrosa, popolata di mostri e di angeli, senza che vi sia poi una netta distinzione tra di essi. Certo, se lo avesse girato Kubrick il film non sarebbe certo stato così imperfetto, ma forse è proprio questo suo essere “sbagliato” che lo rende a nostro avviso uno dei più importanti della stagione, a prescindere se piaccia oppure no. Probabilmente, ed è quanto abbiamo sostenuto in principio, Spielberg ha messo le mani ad un progetto più grande di lui, o meglio dalle potenzialità estetiche e concettuali che non gli sono possibili. Resta il fatto che già tentare di realizzarlo è impresa davvero lodevole; tentare poi di realizzarlo alla maniera del “maestro” era praticamente impossibile; riuscire addirittura a farne pure una pellicola che possedesse anche una poetica in linea con la propria...beh...non vi pare forse troppo?

back