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Sunshine
id., Usa, 2007
di Danny Boyle con Cillian Murphy, Cliff Curtis, Michelle Yeoh, Chris Evans

Fuga nello spazio esterno
recensione di Emanuele Boccianti
(morenti)



Uno dei più lucidi - e disperati - profeti del nostro presente, J. G. Ballard, che per congiuntura e necessità pratica la scrittura di fantascienza, coniò tempo fa il termine “spazio interno” per il nuovo terreno che desiderava esplorare, “intendendo per tale quel territorio psicologico (manifesto, per esempio, nella pittura surrealista) nel quale s’incontrano, fondendosi, il mondo interiore dello spirito e il mondo esteriore della realtà”. Lo spazio interno si delineava in contrapposizione esplicita allo spazio esterno, verso cui si era lanciata tanta fantascienza degli anni d’oro, sia scritta che girata, con le sue mirabolanti immagini non soltanto di viaggi interplanetari, ma anche di mutamenti dei nostri rapporti sociopolitici; immagini, a detta di Ballard, che appaiono ora a noi come “enormi frammenti di scenografie superate”. Superate perché hanno esaurito il loro compito di invenzione fantastica, che, conclude lo scrittore britannico, “essendo già data, il suo compito (dello scrittore ndr) è l’invenzione della realtà". Concordo con lui nel ritenere che da questo punto di vista è 2001: Odissea nello spazio il canto del cigno di questa visione: perfetto spettacolo scientifico in costume trasformato in romanzo storico alla rovescia, “mondo conchiuso e impenetrabile alla luce cruda della realtà contemporanea”. Era il 1974. Lo spazio esterno collassa su se stesso e perde di interesse, la fantascienza come strumento di indagine e anticipazione del presente si rivolge ad altro, e i pochi film che ancora si occupano di ciò che esiste oltre l’orbita terrestre hanno il solo pregio, nel migliore dei casi, di offrirci azione o commedia a buon mercato, ma il loro potenziale di sonda è spuntato o del tutto assente.
Sunshine non sfugge a questo triste vaticinio, anzi, soccombe sotto il peso di una responsabilità additata dall’autore di "Crash" proprio perché in una certa misura la avverte, ma non sa gestirla, né farsene carico. Lo spazio esterno si fa pura metafora e teatro di bellissime immagini psichedeliche - senza dubbio il pregio migliore del film - ma non contiene se non un pallido tentativo di spazio interno, abbozzato dalle due tematiche in continua e reciproca dialettica di rimando: il confronto con la nostra stella malata, origine di tutto, e lo sfaldamento dell’equilibrio psicofisico dato dalla titanica responsabilità di doverla curare per salvare - letteralmente - l’universo. Danny Boyle e il suo fido scrittore Alex Garland (già insieme per the Beach e 28 giorni dopo devono essersi fatti romanticamente irretire da considerazioni documentaristiche di per sé intriganti, non c’è dubbio, circa la longevità del sole, e, nel più puro spirito della science fiction d’altri tempi, hanno generato una storia a partire dal meccanismo narrativo che gli anglosassoni chiamano “what if”: “e se…?” E se il sole non avesse davvero carburante per altri 5 miliardi di anni? Se si spegnesse tra una manciata di decenni? Certo bisognerebbe fare qualcosa per rimetterlo in moto, prima che tutto finisca. Fargli di nuovo il pieno, per così dire. Che succederebbe se una nave spaziale composta da un‘èquipe di superscienziati, i migliori della terra presumibilmente, dovessero trovarsi a fare i conti con il più antico dei nostri dèi, faccia a faccia con esso, più vicini dello stesso Icaro che dà il nome alla missione, e con l’insopportabile peso del destino del mondo sulle spalle? Ecco: le conseguenze sulla psicologia e sulle dinamiche relazionali tra l’equipaggio sarebbero il vero tema degno di interesse. Il resto, giusta, doverosa coreografia di contorno, bella e impressionante quanto vuoi, ma, per riprendere il concetto di cui sopra, esterna, appunto.
Qui, però, arrivano i problemi. A partire dalle scelte di cast e dalla definizione dei rapporti del gruppo. Cillian Murphy non regge la funzione per lui pensata: è un androgino sofferente, delicato, tenuemente ambiguo, che magari convince nella parte di Scarecrow in Batman begins o nel ferito e smarrito protagonista di una Londra meravigliosamente deserta in 28 giorni dopo, ma risulta innaturale, restio a vestire i panni del miglior astrofisico della terra, non trasmette quell’intangibile sensazione di forza intellettuale irradiante sicurezza che dovrebbe. Anche prima che comincino i problemi. Cliff Curtis è uno psicologo con la faccia da mujaheddin, curiosamente, il primo a manifestare bizzarri segni di instabilità al cospetto del dio sole, e le due donne dell’equipaggio sembrano state inserite poco più che per motivi di bilanciamento dei sessi, data l’inconsistenza della loro presenza. L’unico ‘in parte’ sembra Chris Evans, carattere a tutto tondo, squadrato come il suo taglio di capelli e - forse retaggio del suo alter ego nei Fantastici quattro - sempre pronto a infiammarsi, e perciò costantemente punito dal terribile freddo siderale e dai liquidi refrigeranti (ironico contrappasso, date le temperature incendiarie che premono sull’astronave).
La storia si dipana tra forti tensioni derivanti da imprevisti di rigore in un viaggio spaziale e conseguenti, delicatissime decisioni che sono destinate a mettere a repentaglio, di volta in volta, uno o tutti i membri della ciurma, dato che per l’assoluta importanza dell’esito della missione, il postulato di partenza non può non essere quello della sacrificabilità dell’equipaggio stesso. Anche qui però i conti non tornano, perché i contrasti tra i personaggi sembrano non tenere debitamente conto proprio di questo postulato: si ragiona e si litiga in merito a questioni morali come se non fosse chiaro che se l’Icarus II fallisce il suo compito, non ci sarà vecchiaia ad attendere nessuno nel sistema solare. Lo spettatore attento e intransigente pretenderebbe un training e una selezione dei componenti ad hoc per una missione del genere, verosimilmente preparati già di partenza a considerarsi una “expendable crew”, per citare Alien. Niente di tutto ciò.
Inoltre i due punti di svolta fondamentali per il movimento della storia, uno situato nel primo atto, l’altro all’inizio del terzo, sono di una debolezza sconcertante, e questo dà tristemente l’alfa e l’omega della sceneggiatura. Un errore marchiano, una dimenticanza (sic) nella gestione dei calcoli di rotta da parte del matematico, e la comparsa del cattivo di turno, pretestuosa quanto sofisticata apparizione che, se da un lato cerca di ripescare in parte l’atmosfera di claustrofobica invasione tipica del già citato film di Ridley Scott, rivela subito una confusione esiziale proprio in merito all’esigenza iniziale del film, e cioè mostrare (e non asserire) la degenerazione della psiche di fronte ad un impegno così soverchiante per l’emotività umana. Ne risulta che tutto ciò che si può dire della minaccia che infesta la nave è che è la pazzia, punto. Il bisogno drammaturgico, la motivazione ad essere dell’antagonista è labile e scarsamente comprensibile proprio perché poco esplorata: è poco esplorato proprio quell’interstizio della realtà che sta tra il dentro e il fuori di noi. Il mostro fa paura perché è orribile come è orribile Freddy Krueger: è psicopatico e orrendamente sfigurato dal calore, e vuole ammazzare tutti. Alla faccia dello spazio interno.
Meno male che c’erano tutte quelle immagini sul sole: cosmico, purulento, asfittico, e sempre letale. Quando il resto non funziona, per fortuna c’è il senso del meraviglioso spazio che da millenni preme su di noi e ci incute timore con indecodificabili proporzioni, e Sunshine è in fondo questo e poco altro: un film spaziale.