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28 giorni dopo
28 Days Later, Gb, 2003
di Danny Boyle, con Cillian Murphy, Naomi Harris, Megan Burns, Brendan Gleeson

Opposte fazioni
recensione di Luca Perotti



L’istinto sopravvive all’uomo. Tocca poi ai superstiti sopravvivere all’istinto dell’uomo.
La Terra, in seguito alla liberazione di un virus terrificante diventa una spettrale wasteland post-apocalittica assediata da corpi erranti alterati dalla rabbia. Rabbia autentica, presente nel sangue di un gruppo di scimmie costrette alla visione di immagini ultraviolente e responsabili dello scoppio dell’epidemia dopo essere state letteralmente scatenate da un gruppo di animalisti.
La Gran Bretagna di Danny Boyle è una gabbia a cielo aperto in cui vige, severa, la divisione in due legioni: gli infetti e i sani, gli attaccanti e i difensori con i primi coaugulati in branchi o ammucchiati in fosse comuni e i secondi che, privati di ogni punto di riferimento civilizzato, sprofondano nell’horror vacui, costretti loro malgrado a riesumare una pulsione omicida per restare vivi, e senza nemmeno la causale determinata dalla patologia.
Nel vedere Jim (Cillian Murphy) avanzare nella catastrofe di una Londra spopolata torna alla mente quel L’ultimo uomo sulla Terra di Ubaldo Ragona che già faceva eco a "I Am Legend", racconto estratto dalla cava inesauribile dello scrittore Richard Matheson delle cui fervide profezie si son serviti in molti, non ultimo George Romero.
Proprio La notte dei morti viventi affiora dal subconscio cinefilo insieme a qualche evidente risonanza carpenteriana nell’assistere a 28 giorni dopo.
Danny Boyle sbologna budget alti e star da copertina traendo spunto dalla lezione di tanto cinema di genere: l’ingigantimento metaforico dei logorii sociali tradotto nella (pre)visione di un olocausto prossimo venturo.
È facile leggere tra le righe sgranate dal digitale, infatti, le conseguenze estreme di una società paranoica sorretta dal livore e dall’accanimento. La nevrosi della malattia è allora nevrosi tout court che oltre a far prevalere l’essenza animalesca, precisa i termini dello scontro in un brusco “tutti contro tutti” o, come accennato precedentemente, nella lotta tra due squadre ben distinte guidate da necessità e logiche paurosamente primordiali.
Le argomentazioni esposte dai soldati trincerati in una Manchester messa a ferro e fuoco ne sono una dimostrazione: in un mondo giunto al collasso il pensiero dei soldati si rivolge alla cattura delle donne come soddisfazione di bisogni primari e farneticante avvio di una nuova specie umana. È sintomatico che proprio costoro delegati alla difesa degli ultimi avamposti umani siano mossi da un criterio simile a quella che determina i comportamenti degli infetti ma con l’aggravante di un raziocinio ancora funzionante ma mutato.
Jim e le due donne superstiti quindi passano da un incubo all’altro come in una scatola cinese. Il pericolo, la paura e l’assedio si duplicano insieme alla percezione dell’ineluttabilità del male come punto di partenza e di arrivo dell’essere umano “liberato” dal baluardo costituito dalla civilizzazione e dalle merci.
Peccato che il film stenti a produrre il giusto grado di coinvolgimento. La linea narrativa segue un andamento sinusoidale ma l’impressione è che i cedimenti di tensione non siano affatto involontari.
È soprattutto nella parte centrale che il film soffre di una fragilità devastante. Danny Boyle esaspera il suo sguardo in termini di scarnificazione della spettacolarità fino a minimizzare e rendere ridicoli i rapporti tra i personaggi. Ne sono una prova soprattutto i dialoghi tra i superstiti durante il tragitto verso Manchester, talmente vicini al clichè da suonare falsi e incomprensibili.
Il film parte in quarta consegnando allo spettatore una premessa ricca di spunti (il legame tra immagini violente e le scimmie, ad esempio) per poi non rispettarle. Da un lato ciò manifesta una certa originalità in quanto è testimone dell’ambizione di deviare da un prodotto tipicamente hollywoodiano estremamente compatto e concentrato attorno al suo tema, in cambio di quelle suggestioni e quelle vertigini che poggiano sulla presenza di vuoti da riempire e argomentazioni da collocare. Dall’altro, però, i cali di ritmo e una evidente ingenuità in alcune scelte di regia fanno assomigliare il film ad un compromesso piuttosto maldestro. Probabilmente l’autore di Trainspotting non è ancora in grado di padroneggiare la sua idea di cinema che sembra custodire un’incertezza di fondo: Hollywood o Europa? Boyle non ha ancora scelto in quale squadra giocare.