Sinbad - La Leggenda dei Sette Mari
Il supplizio del corsaro
di Giuliano Tomassacci

 
  Sinbad - Legend of the Seven Seas, Usa, 2003
di Patrick Gilmore, Tim Johnson, animazione


Un filone insaziabilmente e spavaldamente votato alla sperimentazione tecnologica, terreno illimitatamente fertile offerto ai più disinvolti (e a volte prematuri) svezzamenti tecnologici, ai più temerari accostamenti stilistici, alle più rischiose e azzardate esercitazioni narrative (altrimenti impensabili o improponibili).
Una terra di nessuno elargita con insospettabile fiducia al pionierismo più azzardato – poiché incapace di assicurare a priori anche il minimo tornaconto economico indispensabile all’attivazione di qualsiasi altro progetto live-action.
Un universo parallelo in grado di stravolgere anche la più ferrea equazione produttiva imperante (forti incassi = minimo avanguardismo), sconvolgendone l’ordine dei fattori per arrivare ad un risultato che è, forse da sempre, l’utopia cinematografica per eccellenza: libertà e immaginazione del filmaking spronata e salvaguardata – non ostacolata o demoralizzata – dalle possibilità offerte da un budget esaltante.
Questo il ritratto, seppur sommario, del fenomeno cinematografico d’animazione odierno, che - complici gli incontenibili insediamenti dei modernistici studios specializzati (Dreamworks, Pixar, Aardman), il volenteroso rinnovo e aggiornamento delle vecchie guardie (Disney, Fox), l’oculata sensibilizzazione alla tradizione orientale (si veda il buon riscontro nella distribuzione delle opere di Miyazaki) e, non ultimo, l’introduzione della nomination all’Academy Award per il miglior lungometraggio d’animazione – ha oggi ormai pienamente ufficializzato il suo passaggio dalla nicchia degli intenditori all’industria mainstream.
Ma, proprio perché indirizzato ad un evolversi in accelerazione progressiva e regolato in tale corsa da esiti di mercato spesso imprevedibili, il frenetico sistema produttivo alla base del crescente fenomeno ha iniziato da tempo a seminare le sue illustri vittime, il più delle volte ostacolato nella sua febbrile (e, in diverse occasioni, salutare) corsa allo sbaraglio tecnologico e al soddisfacimento della più corposa fetta di pubblico proprio dalla sua incontenibile, incontrollabile e mutevole forma estetica. Incessantemente ripensata e variata da progetto a progetto, questa estetica è inevitabilmente lasciata in balia di una platea indefinibile, sempre più assuefatta ai canoni videoludici moderni ma anche contraddittoria nei suoi inattesi ripensamenti umorali (in grado di ignorare esiti modernissimi come Final Fantasy e di commuoversi di fronte al tradizionalismo di Lilo & Stich).
Questo fraintendimento di aspettative ha designato come vittima ‘eccellente’ del 2003 Sinbad - La Leggenda dei Sette Mari, ammiraglia di stagione della Dreamworks diretta da Tim Johnson (Z la Formica) e Patrick Gilmore, tradita e strangolata da un meccanismo che conferma ulteriormente di non tollerare granché le mezze misure, avviando all’estinzione i ‘tiepidi guadagni’ in favore del flop totale contrapposto allo sbanco del box-office (tendenza alla luce della quale l’esito commerciale del lungometraggio ispirato a le Mille e Una Notte al confronto con gli incassi dell’avversario scelto Alla ricerca di Nemo acquista le sembianze di un vero e proprio supplizio).
Eppure lo staff Dreamworks, almeno nelle intenzioni, non aveva ragionato male. Ad iniziare dalle intenzioni di sceneggiatura: la vicenda fantasy-mitologica di Sinbad, per iniziare, aveva già dalla sua una certa garanzia di appetibilità cinematografica, consacrata in tempi non sospetti non solo dalle leggendarie trasposizioni in stop-motion di Ray Harryhausen, ma anche da una florida rifioritura nelle trincee del cinema di genere americano e italiano delle decadi 60-70. Le scorribande dell’impavido corsaro dei sette mari rappresentavano per lo studios anche il pretesto migliore per sfruttare i benefici del rinato interesse per i plot di cappa e spada (di pari passo con il successo di Pirates of the Carribbean hanno solcato le recenti stagioni anche Il Pianeta del Tesoro, l’Imax movie di Dante Haunted Lighthouse, per finire con l’Olmi di Cantando dietro i Paraventi).
Lo svolgimento di trama conclusivo testimonia in effetti la validità del soggetto (o almeno i suoi basilari proponimenti) redatto da John Logan (già scaltra penna de Il Gladiatore) pone le basi sulla traccia del mito greco di Damone e Finzia. Il plot-point più significativo ed educativo dell’avventura marinaresca è infatti alimentato dall’amicizia che lega il protagonista al nobile Proteo. Quest’ultimo scioglie gli ormeggi del concitato sviluppo narrativo quando, in virtù della fedeltà nutrita nei confronti dell’amico, lascia ricadere su di sé le accuse – e la derivante pena capitale – rivolte dal padre, re di Siracusa, a Sinbad in merito al furto del prezioso Libro della Pace. Il lestofante è così costretto a salpare verso lidi poco rassicuranti nell’intento di provare la sua innocenza e scagionare il vecchio compare di ventura.
Con rimarchevole coraggio ed evidente volontà di aggiornamento del tipico ed edificante eroe disneyano senza macchia, è proprio nel tratteggio del protagonista che il lungometraggio evidenzia i più consistenti motivi d’interesse e apprezzamento: tutt’altro che puro, integro e virtuoso Sinbad è piuttosto disegnato come un impenitente brigante, egoista ed arrivista, costretto più dal refrattario senso di colpa e dall’assillo morale di Marina - promessa sposa dell’amico e personaggio funzionale soprattutto al dignitoso compiersi dell’immancabile parentesi affettiva - piuttosto che dal latitante senso d’onore. Nella sua umana debolezza, Sinbad arriva addirittura ad accordarsi con il villain di turno, Eris la Dea del Caos, per assicurarsi un futuro d’ozio e ricchezza alle Fiji insieme al suo colorito equipaggio.
Ma l’antagonista, rea del furto scatenante le tribolazioni del corsaro, sfodera ben presto le sue mefistofeliche risorse in un gioco di inganni, tentazioni e tradimenti che pone in risalto l’altro aspetto maggiormente interessante della stesura di Logan. Il consolidato archetipo del duello tra bene e male, eroe e malvagio nemico, viene speziato con una dose non convenzionale di malizia (i dialoghi insinuanti e allusivi di Eris) e imprevista complicità (l’arrendevolezza alla tentazione da parte del protagonista); una variazione al consolidato schema soggetto/opponente che in qualche modo aggiorna la dimensione sentimentale dell’eroe di turno: se Marina rappresenterà per Sinbad la compagna di vita (tra i due sboccerà l’amore, con il benestare di Proteo) Eris ne sarà stata l’amante capricciosa e volitiva.
Con l’avviarsi verso l’imperativo happy ending, la pellicola riprende a costeggiare lidi ben più tradizionali e risaputi (eccezion fatta per il pre-finale con l’accenno all’esecuzione di Proteo diretto con inusuale tensione e senso di ineluttabilità) denunciando il sostanziale squilibrio narrativo palesemente derivato dalla volontà di accostarsi a un pubblico quanto più variegato.
Al contrario invece, quello che ne deriva è un’opera incerta, oltreché grossolanamente risolta, incapace di attrarre e soddisfare pienamente qualsiasi tipo di target fruitivo (spiazzanti o indecifrabili gli aspetti progressistici per un pubblico infantil-adolescenziale, manierati e ampiamente metabolizzati i restanti elementi per una platea più matura).
La predominante intenzione di sposare il tradizionale al moderno invade e sfibra anche il restante lavoro artistico, in particolare quello concernente le tecniche di animazione, improntate al matrimonio tra matita e computer graphic (sfondi pastellati abitati da creature digitali) senza però permettere a nessuno dei due procedimenti di impressionare veramente.
Stesso discorso per l’estetica sonora del lungometraggio, da una parte nobilitata dall’efficacissimo score di Harry Gregson-Williams (temerariamente orfano di canzoni) e dall’altra ricondotta alle direttive di mercato attraverso l’ormai accademica scelta di affidare il doppiaggio a star di calibro (nella versione originale Brad Pitt dà voce a Sinbad, Michelle Pfeiffer ad Eris, Catherine Zeta-Jones a Marina, Joseph Fiennes a Proteo ).
E ritornando a quanto osservato a proposito della brutalizzazione subita al botteghino, è d’obbligo rilevare come Sinbad: La Leggenda Dei Sette Mari sia stato in fin dei conti vittima della propria incertezza e della voluta auto-moderazione. Due difetti che l’industria d’animazione non avrebbe perdonato nemmeno ad un prodotto direct-to-video, al quale il film sembra voglia disperatamente assomigliare.