Se mi lasci ti cancello
Doppia visione
di Francesco Rosetti e Emanuele Boccianti


American letter:
Charlie Kaufman

 
The eternal sunshine of a spotless mind, USA, 2004
di Michel Gondry, con Jim Carrey, Kate Winslet, Kirsten Dunst, Mark Ruffalo, Elijah Wood, Tom Wilkinson

Lo spazio erratico della memoria
di Francesco Rosetti


Postulato: il cinema di Charlie Kaufman (e dei registi che abitualmente gli fanno corona, a dire Jonze, Gondry, e il notevole Clooney di Confessioni di una mente pericolosa), non è artificioso, intellettualistico, o peggio, arty (così è stato anche definito), ma semplicemente parte dall’arzigogolo, dall’artificio, dal gioco intellettuale, butta in faccia allo spettatore l’elemento metalinguistico esplicito (per rendere quest’ultimo partecipe del divertimento riflessivo), e combina una simile attitudine decostruttiva con i frammenti irrinunciabili della narrazione hollywoodiana. Le sue strutture, tutt’ altro che chiuse o piattamente allegorizzanti, tendono alla frantumazione spazio-temporale della forma film, corrispondente alla frantumazione della percezione di sé (e dei propri ricordi) che affligge i suoi personaggi. Attenzione non siamo di fronte ad uno scrittore (o a dei registi, parlando di Gondry e Jonze, non a caso entrambi provenienti dal videoclip) di avanguardia, intenti a portare la decostruzione dei codici linguistici ad un tale radicalismo da eliminare qualsiasi possibilità comunicativa o espressiva. Siamo di fronte ad autori pienamente postmoderni, i quali sanno come anche le avanguardie cinematografiche di quegli anni, in sostanza, abbiano prodotto delle forme, dei codici di cui, senza troppi problemi, poi si è appropriata l’industria culturale. Niente di male, tutta questa prolusione serve soltanto ad indicare come per Kaufman e Gondry, in The eternal sunshine of a spotless mind (l’orrido titolo italiano in questo spazio recensorio verrà felicemente obliterato), la decostruzione esplicita da cinema anni settanta sia soltanto un ulteriore piattaforma narrativa-grafica da innestare sul repertorio iconico di Hollywood e dei suoi generi. E bisogna dire che in questo loro tentativo i due sono tutt’altro che soli, visto il numero di autori che, a loro volta, danno non solo centralità, ma anche visibilità, al momento metariflessivo (i nomi? Lynch, i Coen, Niccol, il Nolan di Memento, P.T. Anderson, o magari Terry Gilliam, per accennare anche a registi di una generazione precedente). Dunque non siamo di fronte ad un giochino intellettualistico poiché la trovata paradossale che innesta la trama (entrare nella testa di John Malkovich, vivere un’autobiografia falsa di agente della C.I.A., finire nel proprio cervello per salvare i ricordi di un amore) rappresenta solo un primo grado di costruzione del film, non è lo stile, ma la maniera, la firma che ricopre il vero percorso stilistico, come sempre sotterraneo e in continua riconfigurazione. Lo spettatore in tutto questo è chiamato ad un lavorio complesso di immedesimazione in quanto visto, ma anche di frustrazione rispetto alla sua effettiva leggibilità. In una sceneggiatura di Kaufman dunque l’immedesimazione è la chiave per dare inizio all’interpretazione e alla decostruzione, anzi i due momenti finiscono quasi per coincidere. A conferma il plot di The eternal sunshine in teoria costituirebbe un copione perfetto da b-movie, o da testo di Dyck. Un macchinario per cancellare la memoria viene utilizzato (in momenti diversi) da due ex amanti per rimuovere il fallimento della loro relazione, ma il cervello di Joel (Jim Carrey) rifiuta di cancellare dalla sua mente i ricordi di Clementine, e cerca di nascondere l’immagine della donna amata nei più remoti anfratti della sua memoria, fin nei piccoli traumi infantili. E questa struttura povera, apparentemente banale, che negli anni cinquanta sarebbe stata tratta in maniera lineare nella narrazione e con perfezione artigianale nella costruzione formale viene contemporaneamente rispettata e tradita da Gondry. Rispettata proprio nell’ uso di effetti speciali il più possibile artigianali che immettano lo spettatore in un’atmosfera surreale e conosciuta assieme, tradita nei continui rimandi tra passato e presente, che rendono una temporalità instabile, codificabile in mille maniere diverse (come appunto la memoria). D’altronde in The eternal sunshine ciò che risulta più compiuto rispetto alla altre sceneggiature kaufmaniane è il processo di visualizzazione del mentale e del temporale nello spazio. Soprattutto (ma non solo) nelle parti del film ambientate dentro la testa di Jim Carrey risulta evidente come la memoria stessa si organizzi come uno spazio labirintico e prospetticamente poco definito, cunicolare (non a caso Gondry lo inquadra spesso come una biblioteca i cui scaffali svaniscono nel buio o i cui volumi si smacchiano). L’azione a cui è sottoposto il povero Joel è quella di una vera e propria rimozione, di una censura di un elemento perturbante, il desiderio, censura indotta da quella stessa disciplina, la psicanalisi (il dottor Mierzwak agisce anche come uno psicologo) che invece dovrebbe aprire la mente del paziente alla conoscenza di una sorta di teatro interno. Joel compie il suo percorso cognitivo oltre che desiderativo proprio organizzandosi come un esploratore della propria memoria, che finalmente comincia a mappare, e utilizza la censura stessa, non solo per occultare, ma anche per salvare, metaforizzandolo, il suo desiderio. Mentre il film trasforma la memoria di Jim Carrey da percorso nel tempo a percorso (anche) nello spazio e si costruisce come una vera e propria esperienza analitica, in cui Carrey agisce simultaneamente come paziente e come terapeuta, rielaborando i suoi traumi (e Kaufman ha anche gioco nel prendersi sottilmente di un procedimento che, in realtà, risulta senza inizio o fine e continua all’ infinito, senza dare pause all’analizzato, e quindi non può risolversi in una vera o assoluta liberazione del paziente), allo stesso modo, Gondry trasforma i volti stessi degli attori in una specie di cartina geografica, soprattutto per quel che riguarda Jim Carrey. Con l’attore canadese a Gondry riesce una operazione simile a quella che era riuscita ad Alexander Payne con Jack Nicholson in A proposito di Schmidt, vale a dire prendere un grande gigione, dalla grande mobilità facciale e ridurne l’esuberanza fisiognomica alla monoespressività, in modo che il viso, l’espressione pietrificata, diventi un recipiente di strati di frustrazione, dolore, rabbia repressa (e Carrey assolutamente straordinario, si trasforma in una specie di Anthony Perkins più malinconico, ma con la stessa follia distruttiva impressa nei lineamenti). I primi piani di Jim Carrey, si pensi allo splendido inizio in cui Joel Barish si sveglia, o meglio, apre gli occhi (il passaggio alla reverie, a quello che risulta uno stadio intermedio tra sogno e veglia, ma d’altronde anche durante il trattamento mnemonico Carrey apre gli occhi, letteralmente sogna ad occhi aperti, quindi gestisce la sua attività onirica), somigliano a dei veri e propri ritratti in cui è l’occhio dello spettatore, che legge le espressioni del viso, a dover imprimere alle immagini il dinamismo cinematografico, analizzando ad uno ad uno i solchi della faccia di Carrey e cercando di ritrovarvi i segni del delirio gestuale delle precedenti pellicole (non a caso, nei ricordi di Joel, la perdita delle immagini di Clementine corrisponde alla perdita dei lineamenti della donna). Il viso del comico canadese diventa una membrana tra l’irrigidimento della coscienza diurna e il caos dell’inconscio, mentre invece il personaggio di Clementine (una Kate Winslet al limite del fregolismo, per varietà di registri attoriali) si trasforma in un segno, capace di assumere molteplici forme e funzioni nell’immaginario dell’uomo che la ama, preludio a diventare “non un’idea, ma una ragazza”. E il film gioca anche con la memoria cinefila dello spettatore, mettendo tutti i personaggi in controruolo e costringendo chi guarda a rimettere in discussione lo statuto delle icone attoriali su cui investe affettivamente. Ovviamente in questa vertiginosa costruzione a trompe l’oeil e a mise en abime, piena di false piste, flashforward che si rivelano flashback, ma in cui, come in Mulholland Drive, la circolarità temporale si volge in consequenzialità narrativa, anche il finale non può risultare liberatorio, ma costituire al massimo una provvisoria presa di coscienza, neanche dell’alterità, ma piuttosto delle proiezioni sull’altro. E il gelo malinconico dell’ ultima immagine che sfuma nel bianco, dà alle immagini (e ai versi di Alexander Pope contenuti nel titolo: mente immacolata = gelida immagine bianca) un sapore cupo di insensatezza rappresentativa e di instabilità, sospese sopra un’ ipotesi di una cancellazione ben più definitiva di quella eseguibile da un software. Un finale di tale evanescenza che sarebbe piaciuto a Jarmusch.


La vana fuga dai ricordi
di Emanuele Boccianti


Chi non si è fatto scoraggiare dal titolo italiano e ha voluto dare credito ai nomi di Kaufman & Gondry, probabilmente non è rimasto deluso. Ci si aspettava un testo ipernarrativo, a tratti perfino logorroico, ma comunque sempre salvato da una originalissima fantasia e da un’architettura intelligente; ci si aspettava una regia piena di un’inventiva in bilico tra il pubblicitario e il colto, comunque sempre efficace. E in Se mi lasci ti cancello ci sono entrambe le cose, confezionate in un film dalla fisionomia per molti versi singolare. Difficile farlo ricadere nell’ambito delle commedie, come d’altronde sfugge almeno un po’ alla caratterizzazione del drammatico. A riprova della noia mortale causata dalla parcellizzazione del cinema entro i confini dei “generi”, qui abbiamo un film che rivela una radice da commedia sentimentale nel soggetto, si sviluppa nella sceneggiatura come un drammatico, e trova una forma certamente personale nella regia, a seconda dei momenti appuntita, abrasiva, surreale, perfino inquietante in alcune sfumature, e poi morbida, ovattata, malinconica, asciutta, minima. Sceneggiatore e regista lavorano con un notevole affiatamento, mettendo l’uno al servizio dell’altro le proprie capacità.
C’è una storia d’amore che parte dalla fine, che è anche un altro inizio, e che per metà del film si svolge dentro la testa di Joel Barish, un uomo che si rende conto che, tutto sommato, ha cambiato idea. Che i ricordi di una storia finita, anche se è finita malissimo, sono sempre molecole fondamentali nella struttura della nostra identità, che è il senso storico di sé, costruito attraverso i ricordi, che ci fa davvero amare la nostra vita, ce la fa percepire; e forse che tutto sommato non è una cosa molto corretta, eticamente parlando, cancellare i ricordi di una persona, anche se quella persona siamo noi stessi.
I due innamorati scappano dall’oblio tenendosi per mano e attraversando i ricordi, rivivendoli ancora una volta - l’ultima, e avendo coscienza di ciò: che la loro storia non solo è finita, ma che tra breve non sarà mai esistita. Si tratta dell’idea/immagine piu’intensa ed esteticamente riuscita del film. Una giostra onirica vertiginosa, con un continuo passaggio tra il sonno (Joel Barish che prende Clementine e comincia a scappare mentre intorno a loro il mondo si sfalda e scompare) e la veglia (Joel Barish apre gli occhi, Joel Barish sente le voci nella stanza, Joel Barish capisce cosa sta succedendo), giostra che viene tradotta in scene, tempi e ritmi in maniera assolutamente originale. Gondry crea un flusso musicale di immagini capace, senza perdere in efficacia e aderenza al mood della sceneggiatura, di rallentare o accelerare a seconda delle situazioni, trascinandoci fuori e dentro la testa del protagonista, da un ricordo all’altro, quindi da una realtà ad un’altra con una fluidità perfetta, senza cesure, senza perdere, appunto, il ritmo.
A ben vedere, forse si tratta della sceneggiatura più perfetta (nel senso di non suscettibile di ulteriore perfettibilità) di Charlie Kaufman, un autore il cui unico limite forse era da rintracciarsi in alcune verbosità tipiche di un certo approccio letterario al cinema. Ma qui il pericolo di sovrabbondanza tematica, quella sensazione di “troppa carne al fuoco” che qualcuno poteva forse patire alla visione di Human Nature o del pur geniale Essere John Malkovich è del tutto scampato, proprio grazie al tenore drammatico e sentimentale della storia. In secondo luogo, l’escamotage onirico dà la possibilità di delimitare la verve inventiva e “surrealista” dello scrittore entro i confini del solo sogno del protagonista, senza per questo sminuirla o frenarla, peraltro dandogli uno status di legittimità proprio in quanto fuga onirica.
E Joel, che questa fuga mette in atto, e lotta coi denti per non farsi strappare anche gli ultimi ricordi di una storia d’amore, ha il volto di Jim Carrey, stavolta non più “faccia di gomma”, tutt’altro. Un’interpretazione defilata, malinconica, riflessiva, a volte più amara che agrodolce, pensata e soprattutto sentita in ogni scena. Come d’altronde vale un po’ per il tutto il resto del cast, a ben vedere: Kate Winslet, che ci offre una Clementine perfettamente complementare al suo uomo, impulsiva, chiassosa, superficiale ma passionale in maniera quasi disturbante; Kirsten Dunst, che si rivela nel finale doversi impegnare in una parte più drammatica e profonda di quanto lasciasse sospettare all’inizio; e buon ultimo Tom Wilkinson, il più amaro di tutti, lo scienziato pazzo sui generis che diventa alla fine quello che già era: un uomo di mezza età impegnato nel tentativo di liberarsi dalle pastoie di relazioni sentimentali venate di squallore. Che magari ha inventato quella strana macchina proprio a tale scopo, per dare alla gente un’illusione di libertà da quelle strane gabbie che sono le memorie, ma che scopre tristemente, alla fine, quanto il suo tritaricordi brevettato lasci, comunque e sempre, soli di fronte alla realtà.

 

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