A proposito di Schmidt

Un grande futuro è solo dietro le spalle
di Francesco Rosetti

 
  About Schmidt, USA, 2003
di Alexander Payne, con Jack Nicholson, Kathy Bates

Forse sarebbe ora di rifare il punto sulla situazione del cinema d’autore in America, se non altro perché tutto quello che bolle nella pentola di quel gigante produttivo inevitabilmente si ripercuote sulle cinematografie del resto del mondo, nella loro varietà tutte comunque orbitanti intorno al catalizzatore hollywoodiano. Quando si dice cinema d’autore non intendiamo citare né i mostri sacri (Coppola, Scorsese, Spielberg, Lucas, Cimino, Altman, Allen, Mann, Eastwood), oramai ineludibili anche per le antologie universitarie, né i cineasti d’importazione, perfettamente integratisi nell’ ingranaggio produttivo statunitense o rimasti gloriosamente ai suoi margini (Jackson, Forman, la Campion, Cronenberg, Weir, JohnWoo, Ang Lee). Non parliamo nemmeno di registi troppo segnati dalla vicinanza al Sundance o all’ underground (Jarmusch, Ferrara, Solondz). Ci riferiamo piuttosto a quel gruppo di cineasti più o meno formatisi a metà anni novanta, cresciuti con le parole d’ ordine del decostruzionismo e del post modern, che hanno fondato la loro riflessione sul cinema proprio su quel fattore davanti al quale si sono spesso impantanati i grandi degli anni settanta-ottanta, vale a dire l’ assoluta autoreferenzialità dell’ immagine. Laddove in questi ultimi si avvertiva (si avverte) ancora la malinconica constatazione di non poter insufflare la carnalità, la corporeità nei fotogrammi di celluloide, di non riuscire ad identificare una forma, una struttura del reale, ora in autori come Mendes, Haynes, i due Anderson si può invece trovare la volontà di costruire la propria polemica contro le ambiguità ideologiche del grande paese proprio sulla pericolosa evanescenza dell’ immagine e dello guardo che le sostiene. Non esistono una verità o una sostanza nascoste dietro la materia bruta mostrata, ma solo costrutti culturali, da smontare continuamente e denunciare nella loro perniciosa inefficacia e non è un caso che tutti i registi citati non siano affatto spaventati dall’ usare la patinatura o la levigatezza formale, magari in funzione straniante e con il ricorso alle grammatiche di genere, vero e proprio magazzino di iconografia in movimento. Fino ad ora la commedia, un tempo punto di forza dell’autoriflessività americana aveva fatto la parte dell’ anatra zoppa, vuoi per la notevole importanza della scrittura , vuoi per la continua attenzione al quotidiano, al sociale, insomma alla realtà richiesta dal genere. Per fortuna poi Wes Anderson e ora Alexander Payne hanno brillantemente (senza alcuna ironia) riscoperto l’ acqua calda, vale a dire che la commedia a Hollywood non ha mai fatto le bucce alla realtà quotidiana, casomai ad un modo collettivo di percepirsi, che il cinema con la sua aura mitografica aveva esaltato nelle sue componenti ideologiche più appariscenti. Quindi smontare la commedia classica oggi vuol dire fare decostruzione di una decostruzione, messa in abisso raddoppiata tanto per constatatre vieppiù che in America lo sguardo (non importa se individuale o collettivo) parli solo di sé stesso a sé stesso e sia inviluppato in una sorta di vortice affabulatorio senza via di uscita. Ed ecco il dramma del signor Schmidt, di un Jack Nicholson continuamente in lotta più che con la sua realtà di pensionato vedovo e annoiato, con l’ idea della morte e con la leggenda dei pionieri, dei padri fondatori. Un fantasma quello di Schmidt tanto più forte in quanto prodotto dell’ inconscio collettivo, della stessa mentalità diffusa in cui è immerso e non solo di una suggestione individuale. E qui Payne degli ingredienti che costituiscono la commedia classica valorizza il più forte e rischioso, vale a dire il comico puro, lo scardinamento di ogni ordine razionale e societario. Lo fa nelle gag, la cui corporeità violenta in alcuni casi si avvicina alle più ruvide guasconerie dei Farrelly (anche se con un’amarezza e sgradevolezza decisamente maggiori). Lo fa soprattutto nella personale rilettura del mito di Nicholson attore, il cui personaggio eponimo ha una carica violenta così eversiva e radicale da perdere ogni connotato ambientale riconoscibile. Laddove infatti i grandi epigoni di Jack (da Penn a Norton) costruiscono delle figure di nevrotici socialmente ancora riconoscibili il nostro incarna invece un fool completamente astratto, surreale nella sua demenza isterica (forse l’ unico che potrebbe rileggerne i ruoli a tutt’oggi è Jim Carrey, guardacaso un comico). Schmidt è surreale nella sua sconfitta proprio per la completa incompatibilità del mito Nicholson con tutti gli ambienti in cui capita e questa assoluta irriducibilità ad ogni location in cui questo omino dimesso e incarognito viene sbattuto nelle sue peregrinazioni per l’America, da agli ambienti stessi il tono del falso, dell’ impostura, del fondale. Ma Payne non si limita a questo nel suo lavoro con Nicholson: del monumento illumina un altro lato poco appariscente dietro l’ euforia isterica del ghigno e del sopracciglio rialzato. Nicholson è un loser, rappresenta un’America sconfitta, senza ragioni, folle perché da sempre smarrita, senza punti di riferimento plausibili. Settant’ anni fa Mr Smith poteva andare a Washington a sfidare il Congresso, conscio delle sue ragioni, oggi Mr Schmidt va a Denver per far saltare il matrimonio della figlia, con il segreto timore di essere un uomo e un padre fallito. Quantomeno si è abbassato il tiro delle ambizioni e forse anche il Grande paese sta invecchiando. E il patetico tentativo di Schmidt di mettersi sulla strada con il suo camper assomiglia più ad un grottesco naufragio che ad un viaggio dall’ epos fordiano. Probabilmente in questo caso il modello di riferimento è Alvin Straight, anche lui vecchio che può coniugare il suo viaggio soltanto a ritroso e che deve acquisire la consapevolezza di tutte le brutture che costellano la sua vita. Ma al pellegrinaggio di Straight, cowboy, eroe costitutivo dell’ immaginario statunitense è consono un tono di malinconia elegiaca, alla deriva di Schmidt, travet e perdente solo una serie di disavventure tragicomiche,che la regia asseconda con un tocco surreale e quasi ellittico, lubitschiano (anche se con ben maggiore virulenza). Certo, la pellicola risulta più scritta che girata e lievemente ingessata nelle tesi di partenza, ma Payne ha il grande merito di sintetizzare perfettamente nel suo Schmidt tutto il percorso attoriale di Nicholson dalle comparsate con Corman ad oggi. Raramente la fisiognomica stessa di un interprete si fa metafora visuale, paesaggio interiore non solo della psiche di un singolo, ma anche della condizione umana nel suo complesso. I primi piani devastanti cui Nicholson si sottopone ripropongono trent’ anni di ritratti di falliti segnati dall’isteria e dalla demenza, ma anche una paradossale, dignitosissima consapevolezza. Non a caso proprio un capriccio narcisistico di Schmidt porta alla salvezza di un bambino adottato a distanza, Ndugu. Fuor di metafora, lo straziante pianto finale del protagonista non è una scivolata sentimentale, ma il dono che tutte le figure tratteggiate da Nicholson fanno del loro fallimento. Il futuro di Ndugu così si sostanzia proprio nel fallimento di Schmidt, nella generosa vitalità che trabocca anche di puro egoismo. Proprio come accadeva a Mc Murphy nel Nido del Cuculo.