Confessioni di una mente pericolosa
Abisso di incastri finzionali
di Francesco Rosetti


American letter:
Charlie Kaufman

 
Confessions of a dangerous mind, USA, 2003
di George Clooney, con Sam Rockwell, George Clooney, Julia Roberts, Drew Barrymore


Chi fu (chi è stato, chi è) Chuck Barris? Un creatore di tv spazzatura, un imbonitore da fiera catodica, un produttore e presentatore lucido e innovativo, ancorché cinico, un uomo di spettacolo, quindi un grado zero come personaggio, privo di qualunque identità di persona? E cosa fu la sua autobiografia, in cui affermava di essere stato, oltre che presentatore televisivo, anche spietato sicario della C.I.A. con oltre cinquanta omicidi alle spalle? Un abile tentativo di manipolazione di un tizio che voglia sempre far parlare di sé, oppure il delirio di un dissociato sempre più incapace di distinguere nella sua mente realtà e proiezioni psicotiche? Clooney e Kaufmann (rispettivamente regista e sceneggiatore di Confessioni di una mente pericolosa) scelgono di non rispondere a tutte queste domande.Al contrario tendono a rendere il protagonista Barris del tutto inesplicabile per chi guarda, immergono lo spettatore in un’esperienza audiovisiva allucinata e/o sardonica. Così Sam Rockwell ha la possibilità di creare uno dei più radicali antipersonaggi dell’ultima Hollywood sulla scia del Nick Abbagnale di Di Caprio in Prova a prendermi e dell’Andy Kaufmann di Jim Carrey in Man on the moon. Magari senza il fregolismo esagitato di DiCaprio-Abbagnale o l’ assoluta alterità fantasmatica(inumana) di Carrey-Kaufmann, ma con una rabbia istupidita e quasi monocorde che lo rende impermeabile a qualsiasi interpretazione sistematica dei suoi comportamenti. Privo di un’identità psicologica definibile, eppure apparentemente a suo agio nella sua molteplicità proteiforme(patologica), Barris si muove al modo di un’icona, un effetto elettronico, come le regole ferree della società dello spettacolo prevedono. Un guscio vuoto che può essere riempito di volta in volta dal ruolo di killer della C.I.A, o di presentatore, di cinico imbonitore o di amante affettuoso. E così va a farsi benedire l’immedesimazione della spettatore con la confessione moraleggiante (con le immagini) che un Sam Rockwell in crisi esistenziale e attitudine paranoica vorrebbe ammannirci a inizio film. A chi si dovrebbe credere? Allo spietato omicida o al professionista di tv spazzatura entrambi eletti a voce narrante, sintetizzati nell’ ineffabilità sellersiana (ma con più isteria) di Rockwell?. Il tutto con una regia che sposa in pieno il (non) punto di vista del suo protagonista nel descriverne la doppia vita. Una messa in scena che elimina ogni possibile diversificazione tra realtà (presunta) e finzione biografica (altrettanto presunta). Il problema, come in molto cinema americano d’ autore è: cosa stiamo vedendo? Che realtà ci sta sciorinando davanti Barris (e Clooney con lui)? Il nocciolo della questione in un biopic sarebbe scoprire la verità sulla reale carriera nella C.I.A. dello strano protagonista, o se tutto fosse una messa in scena, magari un delirio, ma quando Clooney decide di non dare risposte, i due mondi, televisivo e spionistico, per quanto filmati in modo diverso (sgargiante, pop e frammentato il primo, gelido,cromaticamente freddo, sovratemporale, il secondo), si compenetrano l’un l’altro senza soluzione di continuità, sembrano parte di un unico incubo. Un gioco kafkiano in cui è imprigionato lo spettatore, ma pian piano anche lo stesso Barris, apprendista stregone, Prospero incauto intrappolato come un paranoide nella sua stessa intelaiatura di finzioni. Qual’ è infatti il rapporto tra le due linee narrative del film? Certo non solo un legame biografico di due vite giustapposte, nemmeno un legame metaforico abilmente suggerito da Barris (la C.I.A. e la televisione come due facce, una rassicurante, l’ altra cupa di una stessa costruzione massificatoria), ma piuttosto, tesi che non si contrappone alla precedente ma la integra, due dimensioni mentali ugualmente fittizie, che rimandano l’una all’altra senza soluzione di continuità come in un universo lynchiano. Come in Mulholland Drive in una civiltà dell’immagine la mente non può che catturare segni che di continuo possano cambiare significato, l’immaginazione non è più referente di alcuna realtà, ma solo di frammenti visivi. Se gli agenti della C.I.A. somigliano sempre più a potenze infere, da Clooney-Mefistofele a Julia Roberts-Thanatos è anche vero che non possa definirsi reale o plausibile il palcoscenico circense della televisione dove Sam Rockwell imperversa come un Re dei folli carnascialesco. Tutto avviene in una mente la cui visione è liquida, persa tra universi dai contorni tutt’ altro che nitidi. Da decostruttore molto raffinato forse Clooney (ed è l’ opera prima) è il regista che più di tutti, dopo Forman scopre il paradosso del biopic (o dell’autobiografia che è lo stesso), insito nella definizione stessa del genere: bio-pic, bio-pictures, immagini di vita, non importa se vissuta o soltanto pensata, impossibilità di una memoria oggettivante. Confessioni, romanzo coscienziale, come nell’ intimo soliloquio di S.Agostino, ma qui di coordinate concettuali e morali non ne abbiamo, solo un simultaneo presentarsi (e confondersi) di segni tautologici. E un’ ambiguissima fintamente liberatoria fuga finale nel matrimonio con personaggi reali(?) e non(?) a fare da muti testimoni in un galleggiamento nella follia.