il Ritorno di Cagliostro
Storia e grottesco atemporale
di Francesco Rosetti


Venezia 60 - 2003
  Italia, 2003
di Daniele Ciprì e Franco Maresco, con Robert Englund, Franco Gaiezza, Luigi Maria Burruano.


Sembra che il problema del cinema italiano a Venezia (il cinema vero non l’ iconografia telegenica e leccata pomposamente ribattezzata Rinascimento italiano) sia stato quello della scrittura registica della storia, intesa proprio come storia patria o europea. Ovvero come l’ immagine percezione della coscienza diventa criticismo, nuova interpretazione possibile della realtà. E’ la dialettizzazione di questo legame tra visione (libera, individuale) e storia (cronologicamente determinata, collettiva) che lega pellicole come quelle di Bellocchio (Buongiorno, notte), Bertolucci (The dreamers) e anche Ciprì e Maresco (Il ritorno di Cagliostro). Se l’ evento storico su pellicola è diventato spesso romanza feuilletonesca o rigorosa filologia vuoi spettacolare, vuoi spoglia e severa, i film sopracitati, in attesa di una possibile antropologia visiva del passato, sono piuttosto il tentativo di una volontà di coscienza di costruire la propria epoca non attraverso le categorie di giudizio scientifico delle scienze sociali, bensì attraverso un gigantesco sforzo immaginativo esperito attraverso l’esperienza della sala cinematografica. E’ la coscienza (in senso estensivo, non la semplice razionalità) a costruire l’ esperienza del mondo come empatia, assolutezza. Così i tre adolescenti cinephiles di Bertolucci trasformano la Parigi del Maggio ’68 in un repertorio di citazioni museali da film, l’onirismo di Maya Sansa in Buongiorno, notte di Bellocchio non è una semplice fuga dalla realtà, ma un’apertura di fronte ai possibili della storia, trasfigurazione doverosa contro i determinismi del fatto compiuto (l’omicidio Moro), del delirio ideologico dei brigatisti e della nascente massificazione mediatica da civiltà dei consumi, che appare minacciosa all’orizzonte del crepuscolo D.C. Anche Ciprì e Maresco, per la prima volta nella loro filmografia, adattano il personalissimo universo estetico da “Cronache del dopobomba” ad un periodo storico ben definito, il secondo dopoguerra, ma soltanto per annetterlo alla propria visione informe, fatta di detriti iconici, una triste archeologia del visibile. Già Lo zio di Brooklyn e, a maggior ragione, Totò che visse due volte presentavano un universo atemporale, metafisico, composto di frammenti linguistici senza legami di senso possibili tra di loro. Un’Apocalisse melmosa e grottesca, come in Italia se ne erano viste soltanto nel cinema di Ferreri e forse in Pasolini, i cui autori guardano al Bunuel più nero e disperato, quello di Las Hurdes e Los Olvidados e dove l’iconico perde ogni riferimento possibile ad un realismo di messa in scena. Un mondo a suo modo autoreferenziale, che si limitava ad aleggiare minacciosamente sul Blob dell’ immagine patinata TV (ricordiamo le prime immagini di Cinico tv nel criticismo di montaggio di Ghezzi e Giusti). Critica al frullatore caleidoscopico delle immagini postmoderne? Anche, ma la condizione umana di Ciprì e Maresco aveva qualcosa di soprastorico, riguardava qualcosa di più dello spirito (malato) di un’ epoca, nel nostro caso quella del turbocapitalismo di inizio millennio e questo Il ritorno di Cagliostro lo dimostra con molta evidenza. Il grottesco e il corporeo sgraziato dei due registi siciliani non rappresentano una rivincita della realtà (brutta, sporca e cattiva) sul bello finto ed ideologico di ogni altro circuito di immagine, ma una ulteriore astrazione del viscerale e del pulsionale contro la rappresentazione. Non c’è il furore pittorico dell’espressionismo perché è abolita la dimensione discorsiva e la volontà di significazione è sospesa, né una volontà umanistica sottintesa comunque in ogni opzione neorealistica. Proprio come in Las Hurdes, dove lo spostamento dello sguardo surrealista di Bunuel sulla miseria contadina spagnola, spiazzava proprio per la derealizzazione e l’astrazione che riusciva a fondare sull’ orrore mostrato. Il ritorno di Cagliostro è il tentativo di far aderire questo fantasma della decomposizione dell’assurdo alle categorie storiche, o meglio il tentativo di disciogliere anche la diacronia storica nell’informe dell’inquadratura. Come in Bertolucci abbiamo la cinefilia, una cinefilia morbosa e malata che spinge due sfaccendati fratelli a fondare una casa di produzione, la Trinacria film, e ad affondarla con una serie clamorosa di fallimenti, tra cui una pellicola kolossal sul Conte di Cagliostro, con tanto di star hollywoodiana alcolizzata e al tramonto, Robert Englund. Ma qui è del tutto assente l’elegia nostalgica di uno sguardo vergine e affascinato dal grande spettacolo dello schermo. Qui siamo piuttosto dalle parti di Ed Wood, dove la serie B è il luogo della continua commistione dei linguaggi e dei segni, dove le trame ideologiche delle società e delle mentalità si mostrano in tutta la loro reale violenza e in tutta la loro babelica confusione (e non c’è la libertà creativa e il genuino entusiasmo del registucolo di Tim Burton), il balbettio audiovisivo su pellicola diventa lo specchio reale della Storia come meccanismo infernale di sopraffazione e potere dell’ uomo sull’uomo. Altro che realizzazione di uno spirito oggettivo hegeliano o simili. I presupposti su cui si basa la fondazione della civiltà sono violenti e sono rappresentati dalla pulsionalità pura e difforme dei freaks sullo schermo, che si possono accomodare tranquillamente nell’ Italia del ’48 come in ogni periodo storico. Eppure in questo grado zero del postmoderno (e Ciprì e Maresco sono due registi postmoderni), i segni (gli oggetti e i corpi), slegati da ogni riferimento semantico e comunicativo preciso acquistano una paradossale libertà ed infinità. Ed ecco la comicità quasi rilassata della prima parte del film, come se il comico, nella sua accezione carnascialesca, riconfermasse questa libertà dai codici e dal significato. La storia (vuoi come disciplina, vuoi come narrazione) diventa subito archeologia visiva e viene dissolta nell’intreccio dei vari freaks autoctoni che fanno capolino nel film, incontrandosi con l’omologo americano Robert Englund. Poi sarà vero che il film si chiude con la rovina di tutti coloro che sono coinvolti nella lavorazione del kolossal del titolo e che l’insignificanza non vuol dire del tutto libertà e infinità del senso, ma anche assurdo linguistico e vuoto beckettiano, ma la nientificazione in Ciprì e Maresco ha qualcosa di messianico e teologico. Il loro non è pessimismo apocalittico e scontato, ma demistificazione radicale tramite l’iconico assoluto e una nostalgia pasoliniana e il panismo fanno capolino dietro il nichilismo. Il cinema dello svuotamento del quadro dei due registi siciliani rimane uno dei migliori esempi di moralità cinematografica oggi esistente in Italia.