Buongiorno, notte

La visionarietà sociale
di Adriano Ercolani


Venezia 60 - 2003
  Italia, 2003
di Marco Bellocchio; con Maya Sansa, Luigi Lo Cascio, Roberto Herlitzka, Pier Giorgio Bellocchio


Dopo una serie di opere non riuscite – ma comunque coraggiose, personali, non conciliatrici – negli ultimi anni Marco Bellocchio si è nuovamente imposto come uno dei cineasti italiani più importanti. Già con Il principe di Homburg (id., 1996) e La Balia (id., 1998) aveva dato prova di aver ritrovato una certa lucidità stilistica e di racconto; con L’ora di religione (id., 2002), forse il film più sincero e rivelatore degli ultimi anni, l’autore è davvero tornato a denunciare l’ipocrisia ed il malcostume della nostra società, attraverso una messa in scena rigorosa ed allo stesso tempo piena di forza emotiva. In Buongiorno, notte il discorso estetico della precedente opera viene portato ancora più avanti: attraverso una messa in scena che riesce a raggiungere un precisissimo rigore formale, l’immagine si trova in grado di sprigionare un lirismo di rara prepotenza. Costruito in maniera particolarissima, che accosta una ricostruzione scenografica di assoluta storicità a personaggi invece decisamente drammatizzati, in base alla storia ed alle emozioni che si è voluti raccontare, il film racconta una vicenda personale molto più di quanto non voglia raccontare una pagina “nera” della storia italiana: per fare questo, Bellocchio sceglie la coerenza e la forza espressiva di un dramma da camera, intenso ed evocativo come un brano musicale; e proprio come un’opera di musica, il cineasta sceglie di far fuoriuscire il senso della visione soprattutto dal contrasto: Buongiorno, notte è infatti un lungometraggio che basa il proprio equilibrio estetico e drammatico su una serie di dualità/contrasti di impensabile efficacia. Il più evidente, e già citato, è proprio quello tra l’esattezza della ricostruzione e la poeticizzazione delle figure che vengono messe in scena: molte altre assonanze al contrario rimangono più nascoste, sotterranee, ma arrivano a colpire lo spettatore più in profondo, quasi a livello inconscio, fino a generare un’empatia tra chi guarda ed i personaggi (tutti i personaggi) di difficile spiegazione. Non sveleremo altro sulla storia di questa pellicola preziosa e commovente come soltanto il grande cinema di impegno - etico prima che politico – sa essere. Chiudiamo questa breve recensione con il doveroso tributo a Marco Bellocchio, cineasta ritrovato e spiazzante, capace con la forza della propria idea di cinema di saper dividere, di saper stimolare lo spettatore sia nella mente che nell’anima, capace soprattutto di proporre al pubblico un cinema che coniuga con sempre più sorprendente coerenza visione personale e spaccato sociale, spesso filtrato attraverso l’angosciosa maschera del grottesco: qualità che tutto il cinema italiano di oggi (o quasi) ha purtroppo perduto.