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[REC]
id., Spagna, 2007
di Jaume Balaguerò e Paco Plaza, con Manuela Velasco, Vicente Gil, Jorge Serrano

I mostri della porta accanto
recensione di Emanuele Boccianti



Alcuni di noi, qui nella redazione di Off-screen, aspettavano un film come [REC] più o meno da quando certo horror truculento - e macilento - ha cominciato ad imperversare sul grande schermo. Si vedano a tal riguardo le righe scritte in particolare su Hostel e Saw, dense di quegli strali di gommapiuma che spesso ci si diverte a lanciare. Entusiasmi personali a parte, il nuovo film di Balaguerò - e Plaza, autore di un misconosciuto e misconoscibile i Delitti della luna piena - ancora prima che essere salutato come un capolavoro, può funzionare senz’altro come polo antitetico nel dibattito sul cinema "di paura" che anima da qualche tempo la nostra rivista.

Estremizzare attraverso la mediazione
Se fosse possibile costruire uno schieramento, artificiale quanto si vuole ma funzionale, si potrebbe concludere che la mise en scene di [REC] funziona in buona parte proprio perché riporta brutalmente a zero alcuni degli assunti che la stanno facendo da padroni in questo tipo di prodotti cinematografici. Se da un lato abbiamo infatti la paura per evocazione, di cui in sostanza lo stesso Balaguerò si è fatto alfiere insieme ad altri (Del Toro, ad esempio, o Amenabar in tempi appena meno recenti), architettata attraverso la raffigurazione del male come entità specificamente trascendente, che cola giù fin nel nostro quotidiano proponendosi come sanatoria metafisica di errori ed orrori perpetrati dall’uomo (si pensi a Fragile, dello stesso Balaguerò, o a la Spina del diavolo), dall’altra abbiamo il paradigma imperante dello snuff, della tortura, dell’accanimento contro il corpo in virtù di un sadismo che di soprannaturale - e di misterioso - non hanno assolutamente nulla. Entrambi questi approcci sono estremizzazioni, secondo l’assunto, più pragmatico che teorico, secondo cui radicalizzare dovrebbe gettare le basi per la produzione di qualcosa di nuovo ed efficace.
[REC] da questo punto di vista non ha paura di percorrere la via aristotelica del giusto mezzo, e la sorpresa è proprio nel fatto che a conti fatti risulta più estremo delle due soluzioni che sembrerebbe mediare. L’orrore che propone è totalmente immanente, anti-metafisico e perfettamente calato nel qui-ed-ora, anche da un punto di vista registico-formale; eppure contiene in sé degli echi che alla fine conferiscono ad ogni brivido un sapore che rimanda ad altro, ad un male che sta anche oltre il condominio in cui si scatena, un male che sa di apocalittico, di ancestrale e di intrinsecamente inconoscibile: ci si alza dalla poltrona con la sensazione che qualcosa sia rimasto fuori dal narrato, eppure tutto è sufficiente.
Il fantasma balagueriano, con la sua forte collocazione in un contesto etico trascendente, o il sadico torturatore con un sacco di rabbia e tempo libero, erano in fin dei conti autofondanti, non ulteriormente risalibili da un punto di vista esplicativo. I mostri di Barcellona di Balaguerò e Plaza, no. Resta il mistero oltre i margini dello schermo, però ciò che uccide la gente - di qua e di là dello schermo, metaforicamente - non è il mistero. E questo è il punto.
Il peggiore dei crimini, a questo punto, sarebbe rivelare la trama oltre il primo quarto d’ora: quindici minuti in cui non solo non accade nulla di perturbante, ma sembra anche difficile individuare che sentiero prenderà la storia. La troupe di un’emittente televisiva locale di Barcellona si mette una notte al seguito dei vigili del fuoco per carpirne qualsiasi stilla di azione e di brivido durante il loro operato. La prima chiamata è per un soccorso in un appartamento: si sono udite delle grida provenire dalla casa di una anziana signora all’interno della sua abitazione. Una squadra di “bomberos”, seguita dalla petulante reporter e dal suo cameraman, parte alla volta della donna da salvare. Per fortuna nostra, le cose non vanno come dovrebbero.

"What you see is what you get"
Il programma televisivo si chiama “Mentre voi dormite”. C’è un format interno al film, ed è quello del reality. Questo è uno dei più importanti elementi di strategia della tensione in atto nel film, qualcosa che non si vedeva nel cinema horror, dai tempi della strega di Blair.
Le architetture ansiogene in un film sono quasi sempre progettate a partire da una regia assolutamente complice, nel senso che ad essa, alla sua costruzione della visione, è affidata l’efficacia della presa emotiva, sia che si tratti di una artefatta elaborazione da videoclip (penso a Rob Zombie, tanto per fare solo un nome); oppure si rifanno ad una versione aggiornata per il cinema di quello che è il repertorio di stampo gotico o neogotico, quella che dai tempi di Corman e della Hammer viene chiamata la "messa in scena della paura’. Anche qui il film spagnolo compie un passo significativo in direzione differente: non c’è dubbio che la macchina da presa sia ancora una volta correa del gelo che ci prende alla schiena, ma stavolta lo è proprio nella misura in cui non costruisce nulla (e quindi costruisce ogni cosa, ma da zero): tutto il filmico è interno alla soggettiva del cameraman, tutto il narrabile è il reality show che era nei piani della troupe ("continua a riprendere" è il mantra disperato della reporter), senza altra interferenza registica che non il montaggio in macchina del povero operatore (lo stesso Paco Plaza in realtà) e le vertiginose riprese a schiaffo, spesso fuori fuoco e/o fuori centro che chiamano così prepotentemente in causa lo spettatore. Non esistono dolly o plongèe, niente musica, ovviamente; non c’è raffinazione della visione, perfino il montaggio rinuncia al suo potere significante, sacrificando tutto all’altare della totale immedesimazione, fin dall’incipit ordinario e sottotono, con i ciak ripetuti dalla giornalista che sbaglia le battute e dice: questa la rifacciamo.
Noi siamo l’operatore, noi siamo il povero cameraman che scappa per gli spazi angusti di un condominio, che in maniera assolutamente iperrealistica diventa qualcosa di molto altro - e molto di più - di qualsiasi casa infestata o qualsiasi castello gotico. Eppure c’è distanza anche dal memorabile esperimento di Myrick e Sanchez e della loro strega del bosco. Lì la scommessa era sul potenziale innescato dal non vedere. Qui Jaume e Paco compiono il salto e mostrano tutto, fino alla fine, fino a non poterne più, donando alla visione uno dei migliori "mostri finali" che il sottoscritto ricordi. Vogliono che vediamo, perché il nostro ruolo è quello di testimoni oculari: essere lì mentre succede, non a posteriori, con la ricostruzione del presente che viene messa in atto con la regia (intesa come sofisticazione dell’accaduto e sua ricodifica cinematografica). La scelta del piano sequenza sporco e continuo, faticoso e disturbante, in questo senso, è bazinianamente perfetta.

Modulare i parametri
Ma in ultima analisi, cos’è che vediamo? Difficile parlarne senza rovinare lo spettacolo, basti una considerazione finale: anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una fusione tra stilemi del genere. Ciò di cui siamo chiamati a testimoniare è, di nuovo, non originalissimo in sé: è sufficiente nominare Romero per rovinare a molti parte della sorpresa. Ancora Romero, ebbene sì. Però qualsiasi timore di dejà vu è infondato, si può stare tranquilli. Saper raccontare una storia significa anche conoscere a fondo i parametri che regolano ogni figura tipica del repertorio, e saperli modulare distintamente, un po" come si modulano i sapori di un piatto per creare nuovi gusti. Il monstruum balagueriano, stavolta, è quello di Romero prosciugato di tutti i referenti vigorosamente socio-politici che il regista dei morti per eccellenza aveva in esso infuso. In [REC] l’oggetto del terrore è chiamato in causa non in virtù di quelle metaforizzazioni tipicamente romeriane, ma per una dinamica tutta interna ai bilanciamenti del setting e della trama: è un’infestazione, un contagio di malvagità che parte da dentro la casa - altro elemento standard evocato e usato dai registi con un taglio diverso e obliquo: è il condominio, prima che l’appartamento, è il pianerottolo e la tromba delle scale, è un formato che si legge verticalmente ma da dentro, è una rete di bilanciamenti spaziali in atto tra un interno e un altro, prima che tra locali nello stesso interno. Romero meno Romero, dunque, più Carpenter: proprio così. Nessun mostro è più immanente di quelli creati da Romero, e infatti in questo film la prosaicità narrativa dell’elemento del male è stemperata da un ingrediente tipicamente carpenteriano rintracciabile ad esempio nella genesi di Michael Myers in Halloween: quello del male dalle origini imperscrutabili, primigenio e assoluto, e il riferimento nel finale di [REC] alla Chiesa cattolica e all’esorcismo (tanto quanto quello ad un tentativo medico, dunque scientifico) per esplicare l’anomalia ne è un indizio eloquente. Carpenter (e Raimi) sembra anche chiamato - indirettamente - in causa anche per la costruzione dello spazio scenico d’azione, con una proposta di assedio in questo senso rovesciata rispetto ai genitori storici: come accennato poco sopra, è un assedio che nasce dall’interno, in una zona che cessa di essere la casa intesa come abitazione e si rivela trappola in quanto contenitore segreto di abomini da tempo celati nel suo grembo.
La ricetta vincente proposta dai due spagnoli sembra in conclusione pensata e realizzata all’insegna dell’ibridazione, gestendo attraverso un gusto personale, del tutto inaspettato conoscendo i lavori dei registi, una serie di temi e stili con una libertà invidiabile; prendendo da ognuno di essi quanto interessava ma solo quello, evitando così la trappola vischiosa dell’aderenza ad un solo formato (formale o narrativo) e sfumando i coefficienti come si sfumano le frequenze in un mixer. Così facendo si crea un interessante precedente di libertà investigativa ed espressiva, che mostra come si possa da un lato cavalcare un trend rapidamente in affermazione nel cinema mainstream (l’uso del medium nel medium: si vedano le considerazioni a margine di Venezia 64) senza apparire pedissequamente modaioli. Dall’altro come sia sempre e comunque possibile, perfino auspicabile, rivitalizzare icone del cinema dell’orrore mai morte (lo erano già dall’inizio, ci si perdoni il calembour) ma fin troppo spesso utilizzate senza fantasia o ispirazione.