Hostel

La mostra delle atrocità
di Emanuele Boccianti

 
  id., USA , 2005
di Eli Roth, con Jay Hernandez Derek Richardson e Rick Hoffman.


C’è un nuovo horror in città. Pane per i denti di chi ha sempre voglia di nuove efferatezze sullo schermo, e sempre più truculente. È l’ultimo paradigma del genere: prendi il vecchio gore, o splatter che dir si voglia, rispolveralo, appiccicalo entro un nuovo contesto, vedrai che ammazzamenti e atrocità sembreranno nuovi di zecca. Funziona, se non altro al box office. C’è da credere che anche questo Hostel, seconda prova del regista Eli Roth, amico di Tarantino, qualche biglietto lo farà strappare. Menzionare le amicizie altolocate del signor Roth in questo caso non è fuori luogo, dato che è stato proprio il regista di Pulp Fiction a spronare il progetto e a proporsi come produttore esecutivo, generando così la fatidica scritta “Quentin Tarantino presenta” a campeggiare sui cartelloni. E già quello è tanto: come arrivare ad una festa esclusiva perché presentati da uno dei vip della serata. Basterà?
Se vale come precedente la lezione impartita da Saw – l’Enigmista (film che con sadica ostinazione in questi spazi spesso utilizziamo come tornasole per capire dove sta andando un certo tipo di cinema), c’è da credere che ultimamente il pubblico dei film di tensione si sia fatto di bocca buona: l’ordito narrativo – se c’è - non deve essere di fattura composita, la sarabanda di sofferenze inflitte ai personaggi deve essere a getto continuo, ben ritmata da orpelli registici scelti a mestiere, la macchina da presa deve possibilmente spingersi fin nelle ferite che si aprono scena dopo scena; documentare, si deve, la piaga, la mutilazione, il crollo fisico e psichico dei malcapitati di turno. E allora ben venga Hostel, che ha dalla sua un invenzione di setting abbastanza machiavellica: quello che vedete sullo schermo si rifà a fatti veri o potenzialmente veri. Si dice che Roth l’ispirazione l’abbia tratta da quanto scoperto su un sito web thailandese. Né c’è alcun bisogno di esplicitare la cosa con didascalie ad hoc, ché apparirebbero pleonastiche; ciò che capita ai tre amici impegnati in un viaggio a zonzo per l’Europa (chi si ricorda il mitico inter-rail?) è qualcosa che sa di verosimile fin dall’inizio, a parte alcune “doverose” licenze narrative. Sa di vero il pellegrinaggio giovanottesco ad Amsterdam in cerca di emozioni intense, sa di vero anche l’impennata verso l’Europa dell’est, quando la sete d’avventura e di proibito – insieme a quella di sesso take away - si fa sentire ancora più forte, e spinge i tre porcellini alle porte di Praga. Sa di vero anche che sia l’oriente europeo a svolgere il ruolo di “hic sunt leones” del campeggiatore, almeno in un certo immaginario di stampo americano.

Sarebbe ingiusto viziare la visione del film andando a svelare ciò che aspetta i protagonisti in quel di Praga, anche perché la storia ha comunque nel suo baricentro l’effetto sorpresa. E non potrebbe essere altrimenti, visto che non appena lo spettatore ha la possibilità di capire cosa sta succedendo, scrollandosi di dosso momenti di intermezzo da mystery story, tutto sommato un po’ uggiosi, non gli rimane altro da fare che vedere, come si guarda la CNN, seguire la telecamera in giro per i corridoi e le segrete di quell’angosciante palazzo in rovina, dove troppa gente strana si aggira e dove accadono, è appena il caso di dirlo, cose turche. Il limite di Hostel è unico, ed è macroscopico. Documenta molto più di quanto suggerisce. Niente è lasciato alla suggestione, se non nella parte centrale, dove però più volte ci si chiede: ma che sta succedendo? E soprattutto: perché io non mi comporterei come si comportano loro? Vecchia domanda. Capita spesso quando è il personaggio (non l’attore) a essere sotto contratto. È vincolato dalla trama, vero despota della situazione, che lo risucchia al suo acme, deve farlo, perché bisogna pur dare sfogo alla necessità di esibizione dell’accanimento contro la carne e i suoi tessuti connettivi. Bisogna, per dare un senso a tutto quello che sa di vero e verosimile che il film ha seminato fino a quel momento, e che cammina sempre sul sottile filo del banale, o dell’inutile. La questione annosa è: basterà poi il carosello delle sevizie a controbilanciare tutto, a far uscire dal cinema sazi di cinema? La risposta, qui, è squisitamente soggettiva. Noi la nostra ci sembra di averla data.