Otto donne e un mistero
Cinema de papà
di Francesco Rosetti

 
  Huit femmes, Francia, 2002
di François Ozon, con Fanny Ardant, Emmanuelle Béart, Danielle Darrieux, Ctherine Deneuve, Isabelle Huppert, Virginie Ledoyen, Firmine Richard, Ludivine Sagnier

Qualche volta il talento non basta. Anzi, dispensarlo a piene mani può risultare una dimostrazione irritante di narcisismo piuttosto che di generosità estetica, soprattutto quando si gode dell’ appoggio incondizionato(e un pochino sciovinista) dei Cahiers du cinema, si viene considerati(giustamente peraltro) uno dei maggiori registi d’ oltralpe e non si ha il minimo bisogno di un contatto con un pubblico, quale che sia. Il rischio in questi casi è che o si è Bergman o Fellini, oppure si cade nell’ossequio del proprio ombelico. Detto fatto, questo succede in Otto donne e un mistero ed è un peccato perchè Ozon è veramente un autore, con all’attivo almeno due delizie cinematografiche non comuni come Sotto la sabbia e Gocce d’acqua su pietre roventi, dove, con la benedizione di Fassbinder, la speculazione sul genere si risolveva con splendida naturalezza nel fluire del racconto
e i due termini dell’analisi e della narrazione si integravano con assoluto agio. Qui le cose sono andate in maniera diversa e il gioco linguistico, fin troppo capzioso e sottile, ha finito per prevalere sul piacere di narrare. Niente di male , ma in questa maniera la pellicola si trasforma in un divertissement un po’ inamidato e fagocita anche il potenziale discorso sul genere sotteso al suo svolgimento. Spieghiamoci meglio. Ozon ama il melò (e Otto donne è un melò), ma lo ama da studioso, da cinefilo, come chiunque sia nato dopo la Nouvelle vague e l’ analisi narratologica.
Guardiamo la messa in scena: una riproduzione perfetta dei melodrammi sirkiani, negli ambienti medio-altoborghesi, nel cromatismo acceso e pulsante della fotografia(nel melò la scenografia si impregna della visceralità frustrata dei protagonisti), nella scrittura dei personaggi che, al solito, dietro la patina di ordine e rispettabilità, nascondono rancori sopiti, legami morbosi, perversioni. Tutto perfetto, ma pur sempre di una riproduzione si tratta. Per un regista della generazione di Ozon è impossibile aderire al genere senza una mediazione teorica preconfezionata, come riusciva (relativamente) facile ai grandi maestri della Hollywood anni 50. Il melò può essere utilizzato da un regista al massimo come griglia, piattaforma, repertorio di figure, caratteri e situazioni, una grammatica preordinata di cui interessa smascherare i presupposti ideologici e la loro violenza sotterranea sullo spettatore. Dunque volontà del nostro autore sarebbe quella di decostruire l’ immagine degli anni cinquanta nelle sue strutture primarie che, sotto sotto, sono alla base anche del nostro immaginario condiviso. Un obiettivo questo, evidente soprattutto nella scelta del cast, tre generazioni di star del cinema francese, scelte appunto per il loro statuto divistico di immagini luminose, pure istanze mitografiche, in grado di aderire senza problemi a dei tipi fissi, invece di interpretare dei caratteri ben individuati. A questo punto a Ozon sarebbero restate due strade: o mimetizzare la sua operazione teorica dietro la struttura del melodramma sirkiano, come per esempio fa Todd Haynes in Lontano dal Paradiso oppure renderla evidente, spezzando il meccanismo di immedesimazione spettatoriale. Il regista francese sceglie la strada opposta a quella di Haynes, che fonde in un unicum coinvolgimento emotivo e strategia di straniamento, ma non ha il coraggio di contrapporsi radicalmente allo spettatore, cerca comunque di piacere e questa è la vera tara del suo film. Perché poi l’ operazione sul linguaggio si traforma ben presto in bricolage, pluristilismo, nella scelta di mescolare il melodramma al nerò alla Hitchcock, con echi de L’angelo sterminatore e di Otto e mezzo e perfino stacchetti canori da musical. Una serie di vezzi registici nei climax suggeriti e poi negati, nel tempo dilatato e contratto, nei movimenti di macchina, che fanno somigliare l’ opera più ad un gioco di prestigio che ad una operazione culturale.Ozon evita il rifiuto integrale, ma non cerca di comunicare alcunché e si trova in un vicolo cieco. Cerca di rimediare buttandola sulla parodia(forma lieve della decostruzione), ma senza il disordine del comico, piuttosto con lo humour distaccato di Invito a cena con delitto, meno divertito e più compiaciuto. Un cinema delizioso e sottile, ma che di raffinatezza potrebbe anche morire, vista il continuo ammiccare e l’ ironia troppo autoreferenziale. E se il gioco di società regge grazie al cast, (su tutte una Huppert al limite del fregolismo e una Ardant, sorniona e autoironica nel giocare alla vamp), il sospetto di accademismo rimane. Per paradosso Ozon, partito da un’ipotesi provocatoria di decostruzione, arriva al cinema de papà. E forse prenderà anche l’ oscar.