l'Angelo sterminatore

La tragedia di una classe ridicola
di Stefano Finesi


frame-stop: Luis Buñuel
  el Angel exterminador, Messico, 1962
di Luis Buñel, con Silvia Pinal, Enrique Rambal, Jaqueline Andere, José Baviera, Augusto Bendico

La prima inquadratura è quella di un cartello stradale: siamo in “Calle della Provvidencia”. L’ultima è quella di un gregge di agnelli che entra in chiesa, tra il suono delle campane e il rumore degli spari della polizia che carica la folla. “Poi l’agnello di Dio - recita la didascalia finale - salirà all’altare. È l’ultimo giudizio, la gabbia che imprigiona il peccato si chiuderà per l’ultima volta e sarà per l’eternità”.
Ma sono solo tracce, alcune delle tracce infinite di cui L’angelo sterminatore è disseminato, allusioni di percorsi sovrapposti impossibili da battere fino in fondo: religione, politica, esistenzialismo, psicanalisi, surrealismo; nessuna chiave è risolutoria, nessun livello definitivo. Buñuel rinserra l’incauto commentatore in un testo-prigione simile al salotto che tiene in scacco i suoi personaggi: le domande sono semplici, le risposte lo sembrano altrettanto eppure non c’è via d’uscita.

“La bestia! Eccola!”
Battere diverse piste, abbiamo detto: la prima che salta agli occhi è quella del film come apocalisse moderna. Ma è un’apocalisse di cui i destinatari non meritano alcun furore e l’angelo del titolo, raffigurato su un pannello all’interno del salotto con tanto di spada, nasconde l’armadio pieno di vasi dove i protagonisti svolgono le loro funzioni fisiologiche. La separazione dal resto del mondo dei convitati, un gruppo di borghesi prigionieri di un salotto senza motivi apparenti, richiama d’altra parte la separazione tra eletti e salvati nel giorno del giudizio e tale schieramento trova sostanza poi nei due più caratteristici contendenti dell’apocalisse: la bestia e l’agnello. Buñuel chiarisce subito i giochi in una delle prime scene, quando Lucia, la padrona di casa, dopo essersi allontanata dalla sala da pranzo intima al cameriere di tenere fuori gli animali, un orso e tre agnelli: forse intrattenimento previsto ma sgradito a qualche invitato o forse pura apparizione incongrua tipicamente Buñueliana, vaghissima è la funzione narrativa degli animali, che inizialmente operano solo come perturbante visivo, come uno degli indizi della crisi che lentamente va investendo l’allegra brigata. Ma una volta scattata l’immaginaria serratura che stipa tutti in salotto senza possibilità di fuga, orso e agnelli si ritrovano a scorrazzare per la casa: la presenza del primo è subito rilevata come causa della fantomatica prigionia (“La bestia! Eccola! Saremo prigionieri finché non lascerà questa casa…”), mentre i secondi sono accolti nella stanza. Se l’agnello ha ovviamente un valore religioso sacrificale (il sacrificio di Cristo per la redenzione dell’umanità) e nell’apocalisse è il diretto antagonista della bestia, il ruolo a cui vengono deputati i tre malcapitati è molto più prosaico (lo spiedo), vista la scarsità di cibo che attanaglia la congrega: viene contraddetto quindi il carattere di disinteresse, di “spreco” necessario a qualsiasi sacrificio e l’uccisione dell’ultimo agnello, che viene anche scrupolosamente bendato, è inoltre evidentemente parodica, tanto più che contigua a un rito satanico consumato da Ana con delle zampe di gallina che dovrebbero fungere da porte verso l’ignoto. L’agnello è spogliato quindi del ruolo simbolico consueto e capovolto ad un uso brutalmente mangereccio prima, satanico poi. Destino simile spetta al padrone di casa, Edmundo, che lentamente diventa il capro espiatorio della situazione arrivando ad essere minacciato di morte dagli altri invitati: ma il possibile martirio allo scopo della liberazione del gruppo, con parabola cristologica annessa, si rovescia infine in una sorta di rito della fertilità, poiché l’incantesimo si rompe proprio nel momento in cui lo stesso Edmundo toglie la verginità alla valchiria, Leticia (reduce peraltro dalla “Lucia di Lammermoor” e ricordiamo che la moglie di Edmundo si chiama Lucia…). Buñuel sembra baloccarsi con l’immaginario biblico manipolando simboli ad uso dei suoi mediocri protagonisti e svilendone quindi ogni portata reale.
Solo quando, nell’ultima sequenza, a trasformarsi in prigione è la chiesa dove si celebra il “Te Deum” promesso in cambio dello scampato pericolo, tornano gli agnelli, associati alle campane e agli spari sulla folla: l’apocalisse stavolta sembra seria, non è più l’esperimento-parodia del salotto, ma le parti sono confuse. La salvezza - se di salvezza si tratta - sta in strada in mezzo agli spari o nella chiesa-prigione?

Porte chiuse?
Se poi è l’inferno ad essere in gioco, il salotto trasformato in luogo di supplizio assomiglia non poco al salotto secondo impero in cui si sconta la pena eterna in “A porte chiuse” di Jean-Paul Sartre. Stesso perimetro chiuso, stessa parata di banalità borghesi la cui inconsistenza si lega paradossalmente a una situazione eccezionale, ma soprattutto stessa trappola psicologica: la porta non è chiusa a chiave, ma non si può comunque fuggire. L’inferno illustrato da Sartre è in realtà la negazione di una prospettiva trascendentale, in quanto i tre protagonisti trovano la loro punizione relazionandosi l’un l’altro, nei sensi di colpa che non nascono da un esame interiore ma dall’esposizione impietosa di se stessi allo sguardo altrui in un luogo dove non ci sono specchi né si dorme né si abbassano le palpebre (eternità di uno sguardo senza “tagli”, consapevolezza imperitura, e quindi disumana, dell’occhio; d’altra parte il taglio dell’occhio che inaugura il cinema di Buñuel è il tentativo, umano, di allargare attraverso l’arte l’orizzonte del visibile).
Gli altri come condanna e necessità, la libertà come peso impossibile da sostenere. Tale universo concentrazionario, che Sartre sviluppa più verso la messa a nudo dei rapporti di potere interpersonali (come fa Buñuel, anche lui con la passione degli spazi chiusi, in Violenza per una giovane o Robinson Crusoe), diventa per il regista spagnolo rivelatore della generale impotenza delle vittime dell’angelo. Ridotti al livello di sopravvivenza i nostri borghesi tentano la conservazione di una serie di piccoli rituali legati al bon-ton, alle pratiche massoniche, alla superstizione, ma la caduta di un sistema minato alle radici è irrefrenabile. Tanto più che tali pratiche superficiali esorcizzano ben altro: tre pannelli prospicienti il salotto sono deputati a nascondere i bisogni corporali, i due giovani amanti (poi suicidi), il cadavere occultato di uno degli invitati. Il salotto insomma conserva la qualità di spazio sociale controllato, da cui, oltre a tenere lontana la puzza della stanza dei vasi, è necessaria la rimozione dello scandalo legato a sesso e morte.  Le porte chiuse quindi si moltiplicano, reali o meno, e naturalmente si aprono e si chiudono. E se l’evento che forse più segna l’inizio dell’incantesimo è il lancio di un sasso contro la finestra della sala da pranzo da parte della valchiria, che infrange così illegittimamente il luogo di raccolta del gruppo, la deflorazione della stessa dà il via invece al processo di (momentanea) liberazione.

Sciopero
I movimenti sono quasi inconsapevoli, a guidarli è un istinto di origine sconosciuta: prima che la trappola scatti, la servitù di casa di Edmundo e Lucia prepara la fuga. Tanto più ne vengono taciuti i motivi, tanto più sembra inevitabile e, sfidando gli anatemi del licenziamento lanciati dalla padrona di casa, la nave che affonda è abbandonata. Uno dei primi eventi che segna l’incepparsi della routine quotidiana è la caduta del cameriere che porta il piatto esotico di riso previsto per inaugurare il banchetto: il legame tra servo e servito si interrompe in modo evidente, anche se sempre a un livello inconsapevole.
A prima vista sembrerebbe di assistere a uno sciopero, la sottrazione della forza lavoro che genera l’impasse della classe borghese. Ma Buñuel non tende a rappresentare (sempre in veste metaforica) dinamiche di classe, volontà di lotta e emancipazione: la sua è la descrizione fantastica di un processo fisiologico, quello della decadenza della classe borghese, riflesso storico involontario che non ha bisogno di interventi esterni né di rivluzioni. Dopo aver abbandonato la casa al suo destino, la servitù si ritrova casualmente lì davanti proprio quando sta per avvenire la liberazione, pronta con ogni probabilità a riprendere il suo ruolo a fianco del maggiordomo, rimasto con i padroni e vittima anche lui della trappola.
Questa campione di borghesia si consuma per autocombustione, passando in rassegna nell’ultima fiammata il proprio repertorio di imbecillità: è un tentativo di sopravvivenza, ma alla fine la salvezza è affidata proprio all’effetto di un’inesausta ripetizione di banalità. Leticia, appena sverginata da Edmundo, si accorge che il gruppo è disposto nel salotto nello stesso modo identico a quando ascoltava suonare il pianoforte: replicando stesse battute di circostanza e stessi movimenti si riesce a rompere l’incantesimo. La borghesia riacquista potere avviando di nuovo il proprio ciclo biologico, supera ogni crisi storica rimanendo se stessa e rigenerandosi allo stesso tempo. Ma, come avverte la sequenza finale, la crisi resta sempre in agguato: in attesa purtroppo di nuove rigenerazioni.