Nascosto

Il nascondiglio di Haneke
di Stefano Finesi

 
  Caché, Francia / Austria / Germania / Italia, 2005
di Michael Haneke, con Daniel Auteuil, Juliette Binoche, Maurice Bénichou, Annie Girardot


Dopo il melodramma de La pianista e il filone catastrofico de Il tempo dei lupi, tocca stavolta al thriller essere sottoposto al trattamento “Haneke”, un trattamento doloroso ma spesso (non sempre) efficace, applicato comunque con implacabile sicurezza da chirurgo. È fruttuoso e intrigante iniziare con un paragone di riferimento, quello con Cape Fear, nella più evoluta versione di Scorsese: anche tenendo conto dei contesti completamente diversi di cui i due film sono espressione, entrambi presentano un impianto e uno svolgimento molto simili, con le loro brave famiglie borghesi esposte alle angherie di una minaccia esterna, il passato colpevole dei padri, la sfida dei due uomini caricata di una forte connotazione sociale, la precarietà morale insita nelle stesse famiglie, pronte di per sé al disfacimento e all’implosione. Benché il regista italoamericano, sapendo di stare a giocare con un piccolo standard del “nero”, arricchisca il genere con iniezioni di ambiguità e una ricerca formale sottocutanea, il film non rinuncia a una struttura narrativa tradizionale, soprattutto quando nel finale i ruoli si stabiliscono in modo netto e prende il via a un sano confronto tra bene e male, con tutto il corredo adrenalinico di osservanza.
Haneke non ha ovviamente di questi problemi, fa parte anzi della sua strategia lo scardinamento del già visto: in Caché c’è un cadavere, ma si è suicidato davanti la cinepresa; c’è un rapimento, ma è solo un falso allarme; c’è un mistero (chi ha spedito le videocassette? Troverete sicuramente qualche amico che vi tormenterà appena accese le luci in sala), ma quest’ultimo semplicemente non ha soluzione. Oltre a non produrre mai un vero confronto decisivo tra le parti in causa, il regista austriaco sceglie poi un’impostazione formale che ribalta i cliché di messinscena delle scene più forti, come stanno a dimostrare l’agghiacciante sequenza del suicidio di Majid o quella del flashback in cui lo stesso, bambino, viene portato via dagli assistenti sociali sotto lo sguardo compiaciuto di Laurentt: camera rigorosamente fissa, campo totale nel primo caso, lungo nel secondo, il gelo dello sguardo di Haneke è sempre proporzionale all’intensità delle dinamiche rappresentate.

La messinscena del malessere
Non volendo aver tentato un improbabile paragone tra il cinema “caldo” di Scorsese e il testardo distacco cerebrale di Haneke, quello che interessa è capire meglio in che modo quest’ultimo si rapporti al genere e ne affronti traiettorie e luoghi comuni, perché lo faccia e, principalmente, quale sia lo scopo finale di tale operazione. Se l’impatto narrativo è volutamente disinnescato, se i personaggi mantengono delle zone oscure irrisolte (Anne-Juliette Binoche ha veramente tradito il marito? E il figlio sa veramente qualcosa?), quello che rimane è dunque la rappresentazione impalpabile del disagio, un disagio che è insieme psicologico, sociale e politico. La denuncia dell’ipocrisia borghese, della violenza dei rapporti umani e della volontà di sopraffazione che inevitabilmente li caratterizza, non è materia nuova, né nel cinema contemporaneo, né tanto meno in quello di Haneke: il punto di forza di quest’ultimo è nell’apparato formale con cui sceglie di affrontare tali tematiche e di farle arrivare agli spettatori. La meschinità del protagonista è fastidiosa proprio perché impossibilitata a trovare un vero sbocco drammatico, e più che nel gesto compiuto da bambino risiede nell’incapacità di fare i conti con quel gesto una volta adulto: tale tensione si propaga all’intera famiglia e al pubblico stesso, ma non secondo precisi meccanismi di causa ed effetto, quanto piuttosto attraverso un malessere diffuso che avvelena ogni gesto e ogni scena, una sospensione minacciosa di cui non conosciamo origini e motivazioni e le cui onde emotive finiscono comunque per propagarsi, trovando un riscontro amplificato nella stessa situazione politica internazionale. Quest’ultima, che fa capolino nella lunga e insistita sequenza del telegiornale che racconta i fatti iracheni, dà la chiave del modo di procedere di Haneke e del suo obiettivo: quello di mettere in scena il macro-conflitto tra occidente e islam non solo partendo da un micro-conflitto personale, ma raccontando quest’ultimo in tutta la sua imperscrutabile oscurità, il suo rancore inespresso, la sua cattiva coscienza, i suoi moventi incomprensibili.

I nascondigli dello sguardo
Caché, all’interno cinema di Haneke, assume inoltre una portata teorica sconosciuta agli altri film, ed è importante che tale puntualizzazione arrivi dopo lo scivolone de Il tempo dei lupi. Il mistero delle videocassette, di quel terrorismo dello sguardo a cui sono sottoposti Laurent e la sua famiglia, spiati ossessivamente con una telecamera, non ha soluzione perché racchiude una semplice dichiarazione d’intenti: il segreto di quella visione è lo stesso segreto del regista, quello di un occhio impassibile che riesce a caricare di senso il proprio operato solo in virtù della propria imperturbabile distanza, di un distacco che obbliga all’imbarazzo di fare i conti con se stessi, senza possibilità di distrazione. Non a caso il personaggio di Daniel Auteuil è un giornalista televisivo, abituato alle telecamere, e Haneke ce lo mostra anche mentre monta la sua trasmissione, confezionando uno spezzatino di intrattenimento assolutamente vacuo, in cui viene smussato ogni angolo di dibattito: contro uno sguardo addomesticato che ormai è diventato moneta corrente, Haneke suggerisce l’insistenza grottesca e affilata della sua visione, l’unica realmente destabilizzante nel suo rigore. Questo è in fondo lo scopo ultimo di Caché e del suo volersi appuntare su un genere consolidato, ossia la necessità di ribadire una scelta di cinema frustrante e liberatoria al tempo stesso, tanto più urgente se paragonata a gran parte dei prodotti in circolazione. È significativo, peraltro, nell’identificazione tra il regista e il perverso operatore nell’ombra, che le riprese di quest’ultimo vengano inverosimilmente riprodotte in pellicola nel film, a differenza del video sgranato delle immagini televisive, violando la trita dialettica, ancora in uso in molti film, tra lo sguardo della cinepresa e il ruolo diegetico-amatoriale del digitale.
All’esercizio di una visione ostinata, non chiarificatrice e per questo più ricca di quelle potenzialità che Haneke vuole affidarle, si allinea anche l’esemplare sequenza di chiusura: ancora un campo lungo, a camera fissa, mentre davanti alla scuola solo aguzzando la vista si può distinguere l’incontro inaspettato del figlio di Laurent e del figlio di Majid. Ancora una volta: è il segno di una possibilità di futura riappacificazione o il rinnovamento di un gioco al massacro che sembra non poter avere fine?