il Tempo dei lupi
Catastrofe d’autore
di Stefano Finesi

 
  Le temps du loup, Austria/Francia, 2003
di Michael Haneke, con Isabelle Huppert, Patrice Chereau, Beatrice Dalle, Lucas Biscombe


Innanzitutto, c’è la sensazione, progressiva, ineluttabile, di sentirsi abbandonati. Abbandonati da un cineasta che a partire da Funny Games, primo film distribuito in Italia, aveva infilzato tre capolavori, e la cui personalità intensa e coerente si sgretola ora sotto i nostri occhi, non solamente perché Il tempo dei lupi è un film non riuscito, ma perché votato da subito a una deprecabile autocombustione autoriale. Haneke ha varcato la soglia oltre la quale la sospensione narrativa si trasforma in noiosa immobilità, il raggelamento esasperato delle emozioni diventa un arido esercizio incapace di coinvolgere, la ricerca sovversiva di una rappresentazione della crudeltà e della disperazione un gioco sado-maso fine a se stesso.
Il tempo dei lupi è un tempo senza passato e senza futuro: in un posto imprecisato, la popolazione è braccata dalla mancanza dei beni primari a causa di una devastante emergenza imprecisata e attende l’imprecisato arrivo di un treno che dovrebbe rivelarsi salvifico. Da qui, un presente fatto di violenza e sopraffazione, in cui neanche la degenerazione delle dinamiche del gruppo di sopravvissuti riesce però ad acquistare una reale consistenza drammatica: la strategia autoriale della sottrazione, dei depistaggi, dei riferimenti criptici e dei dettagli simbolici scade in fumisteria fastidiosa e inerte, degna del catastrofismo di maniera del peggior Bergman. Perché abbandonare tracce narrative fondamentali come l’incontro fortuito dei tre protagonisti con la famiglia che li ha derubati trucidando il padre? Perché permettere ad attrici come la Huppert o Beatrice Dalle di aggirarsi senza scopo sullo schermo aderendo a personaggi privi di qualsiasi direzione? A mancare è un effettivo respiro corale che convogli le storie dei sopravvissuti, sopravvissuti alla catastrofe (un disastro ambientale? Una guerra?) e sopravvissuti alle audaci ellissi della narrazione, tentando di dare un impatto sostanzioso anche alla frusta morale dell’homo homini lupus.
Restano innegabilmente alcuni momenti folgoranti: la prima notte senza il capofamiglia nel casolare destinato alle fiamme, il tentato suicidio del piccolo Ben, la sequenza dell’arrivo del treno e il conseguente finale aperto, che funzionerebbe, però, solo in un film che già di per sé non fosse completamente sfaldato, se l’attesa beckettiana dei superstiti non si fosse trasformata nel frattempo in un chiacchiericcio incapace di essere crudele come assurdo, e le cui spropositate ambizioni filosofiche non suonino false o addirittura ridicole. La fine (fisica) di una civiltà al capolinea morale, che riscopre gli ancestrali rapporti di potere basati sulle necessità più strette, è un soggetto che può ancora funzionare previa sentita rivitalizzazione, altrimenti rimane solo l’occasione per mettere in mostra una bancarotta artistica neanche ben camuffata.
Peccato: per Haneke e per un pubblico che ancora avrebbe bisogno di pellicole non consolatorie, il cui carattere sinceramente estremo compensi le pratiche anestetizzanti (o troppo facilmente aggressive) di tanto cinema corrente.