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Intrigo a Berlino
The Good German, Usa, 2006
di Steven Soderbergh, con George Clooney, Cate Blanchett, Tobey Maguire, Beau Bridges

Ambiguità cinefile
recensione di Antonello Sammito



Sperimentale operazione nostalgia di Steven Soderbergh, che recupera estetica e tematiche del noir americano anni ’40, per riflettere nell’ambiguità dei protagonisti quella del governo americano alla fine della seconda guerra mondiale.
Nella Berlino del 1945 ritorna Jacob “Jake” Geismer, corrispondente di guerra incaricato di coprire la conferenza di pace di Potsdam, dove i vincitori del secondo conflitto mondiale stanno per decidere come disarmare la Germania e spartirsi quello che ne rimane. Ma ad occupare i pensieri del giornalista è Lena, sua amante prima della guerra e ora, per fatal combinazione, impegnata in una torbida relazione con il caporale Tully, che oltre ad essere stato designato come autista di Geismer, è molto impegnato in loschi traffici tra le zone della città controllate dai diversi eserciti.
E i tre si troveranno coinvolti in giochi molto più grossi di loro, dove il confine tra bene e male non è così ben delineato.
Steven Soderbergh è sempre stato un appassionato di noir, che ha frequentato in varie declinazioni, da quello d’impronta kafkiana del suo Delitti e segreti a quello in versione più leggera e moderna di Out of Sight, passando per l’Inglese e toccandolo tangenzialmente con Ocean’s Eleven e il suo seguito Ocean’s Twelve. Ma il regista è anche una di quelle poche figure di cineasta con la voglia (e le possibilità produttive) di sperimentare linguaggi cinematografici; quindi in un operazione simile a quella fatta da Todd Haynes in Lontano dal paradiso, per adattare “The Good German”, noir storico di Joseph Kanon, decide di adottare stile e tecniche dell’epoca in cui è ambientato il romanzo. I tagli di luce, i movimenti di macchina, anche la grana fotografica sono gli stessi; il regista arriva addirittura a recuperare dai magazzini ottiche dell’epoca, inutilizzate da anni. E riesuma la tecnica della retroproiezione, ormai soppiantata dai fondali colorati in blu o verde, e grazie ad essa ripropone come sfondo dei dialoghi dei protagonisti, materiale girato da Billy Wilder e William Wyler proprio nella Berlino distrutta dai bombardamenti, che Rossellini aveva così bene immortalato nel suo Germania anno zero.
Anche la recitazione degli attori cerca di riproporre una certa teatralità nei gesti e negli sguardi di quel cinema, con un Clooney impegnato a restituire con molto sforzo e non adeguati risultati, la figura di cinico eroe quasi monolitico, già portata al cinema da Bogart o Mitchum. A Cate Blanchett invece tocca l’arduo compito, svolto con gran mestiere, di Dark Lady, il personaggio ambiguo al centro dell’inganno, che del noir è motore. Inganno in questo caso che è figlio della situazione politica, di una Germani nazista e post, in cui per sopravvivere si era costretti alla menzogna, e dell’ipocrisia di nazioni che sedute ad un tavolo per programmare la pace, fanno di tutto per mettere le mani sulle letali tecnologie belliche degli sconfitti.
A differenziare il film dai suoi palesi modelli come il Terzo uomo o Casablanca, esplicitamente citato nel finale, oltre alla possibilità di rappresentare senza problemi di censura sia la situazione politica, che le scene di sesso, anche la scelta di adottare i punti di vista dei tre personaggi principali e la loro voce off, nei tre atti del film
Soderbergh, che qui come in altri film assume anche la fittizia identità del direttore alla fotografia Peter Andrews, bara inoltre nella ricostruzione del falso d’epoca nell’utilizzare più che nelle pellicole del tempo, il classico campo e controcampo rispetto ai dialoghi con lunghi totali, e a velocizzare i tagli di montaggio. Questo non evita però al film di sembrare un’operazione cinefila troppo fredda e calcolata, o di superare i problemi di sceneggiatura della seconda parte, che non vede dispiegarsi in maniera graduale e omogenea i molti colpi di scena e rischia di far perder interesse nello svolgersi degli eventi. Un’operazione ambigua quindi, come la materia rappresentata, che rende elitario quello che una volta era intrattenimento popolare.