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the Illusionist
id., Usa, 2007
di Neil Burger, con Edward Norton, Paul Giamatti, Jessica Biel, Rufus Sewell

L’illusione dell’illusionismo
recensione di Emanuele Boccianti



Certo non ha giovato a The illusionist essere arrivato sui nostri schermi poco dopo The prestige, ma a conti fatti i due film differiscono così tanto l’uno dall’altro che la vicinanza con lo straordinario film di Nolan non costituisce un vero e proprio handicap, magari il contrario. Diverso è il respiro della narrazione, nel caso del lavoro del quasi esordiente Neil Burger: infatti stiamo parlando di un lungometraggio tratto da un racconto (“Eisenheim the illusionist”, con cui l’autore, Steven Milhauser, ha vinto un Pulitzer), faticosamente adattato per la celluloide ampliando parti e personaggi che nella storia originale erano appena accennati (è il caso di Paul Giamatti). Diverso è il tono della storia stessa: sospesa continuamente tra melodramma e giallo d’atmosfera, anche se a ben vedere il giallo – come stilema e come intenzione - avrà vita breve e travagliata, a beneficio finale del sapore melò della vicenda. Ci sono due antagonisti anche qui, come in The prestige, ma non potrebbero essere più antitetici, ben diversamente dalle intelligenti simmetrie piene di suggerimenti metaforici di Jackman e Bale; qui c’è l’eroe, Eisenheim, un redivivo Edward Norton così calato nei panni del mago da aver celato - e reso misterioso- perfino a noi spettatori quel talento attoriale che ci aveva fatto sperare a suo tempo in un nuovo prodigio (ma cosa gli è successo, ad esser proprio sinceri, dopo Fight club?); un eroe che dedica la sua intera vita alle arti della magia e dell’illusionismo, individuo umbratile, un po’ obliquo, dallo sguardo sempre offuscato da qualche remoto tormento: un vero clichè post-romantico, insomma. Soprattutto perché scompare da ragazzo dalla Vienna di fine ottocento in seguito ad una terribile delusione amorosa, e ci ricompare vent’anni dopo, mago di incredibile bravura e magneticissima personalità, in tempo per incontrare di nuovo la sua fiamma giovanile e scoprire che se allora questo matrimonio non s’aveva da fare, adesso è perfino impensabile l’idea di farci due chiacchiere per strada: lui, benchè maestro nelle arti arcane, è di estrazione popolare e lei, la bellissima e un po’ languida Sophie (Jessica Biel, un po’ forzata magari in quel sembiante ottocentesco, ma sempre gradevole a vedersi) da contessa che era nel frattempo è diventata nientemeno che la promessa sposa - suo malgrado- del principe ereditario Leopold. Il quale ha le fattezze di Rufus Sewell, tra l’altro perfettamente calzanti: è un uomo forte e autoritario, arrogante e razionalista, non crede nella magia e ha un debole per il potere, e soprattutto non tollera che qualcuno possa tentare di soffiargli ciò che ritiene suo di diritto. In mezzo, l’afflitto e arguto ispettore capo Uhl (Paul Giamatti, una volta tanto non impegnato nel classico ruolo della brava persona tutto cuore e un po’ sfigato), che si barcamena dolorosamente tra un dover essere come puro strumento del potere politico e il voler essere investigatore a pieno titolo e ricercare la verità, costi quello che costi. Leopold userà l’arma della politica, Eisenheim quella dell’illusione, in palio ci sarà, appunto, l’avvenenza delle labbra di Sophie, e il suo cuore.
Ma benchè il titolo del film sia esplicito in tal senso, di illusionismo in questa storia ce n’è davvero poco. Al contrario del lavoro di Nolan, non c’è alcuna trasparenza nel mestiere di Eisenheim: quello che gli vediamo fare sono inspiegabili magie che non sfigurerebbero nel repertorio di Gandalf, né la sceneggiatura ci viene incontro - se non in qualche sporadico istante nel finale - per permetterci di distinguere la sua figura di illusionista (“magician” nel testo) da quella del vero mago (“wizard”), distinzione a nostro avviso di fondamentale importanza che invece è sottesa continuamente in The prestige. Vediamo il protagonista compiere dei veri atti prodigiosi, totalmente inspiegabili, come la generazione di ectoplasmi evocati dal mondo dei morti, ed altre amenità ancor più sorprendenti, senza che il gioco del trompe l’oeil vacilli per un istante, senza che mai il regista muova a nostro favore le quinte per rivelarci il mestiere dell’illusione, che è fatta di artigianato, carpenteria, dedizione e sacrificio (e quest’ultimo ingrediente è anche una delle chiavi di lettura fondamentali per apprezzare gli escapisti di Nolan e i loro drammi). A nostro avviso questa differenza è sostanziale, perché chiude la rappresentazione dell’eroe entro una caratterizzazione così forte da essere imperscrutabile e inaccessibile: è prodigio, prima e ben oltre che essere uomo. Ne deriva una piattezza metaforica che è riscontrabile su tutta la scala della narrazione, tanto che la stessa tag-line del film (“niente è come sembra”) lungi dall’evocare profondità e anticipare ambigui giochi prospettici finisce col telefonare palesemente la risoluzione della trama, che dal midddle point in poi corre inesorabilmente verso l’unico finale possibile, e a sorprendersi resta solo il povero ispettore Uhl. A noi spettatori resta poco di cui giovarci: forse la fotografia di Dick Pope. Il "forse" è d’obbligo per chi scrive, dato che la visione del film nella sala dell’ANICA di Roma è stata in buona parte rovinata da un problema di messa a fuoco della pellicola (problema che in quella sala sta riproponendosi sempre più spesso). A meno che non si trattasse di uno strategico ‘flou’ per disturbare la visione del pubblico e rendere ancora più misterica la performance del grande Eisenheim…