Fight Club
Esplosioni subliminali
di Luca Persiani

 
  id., USA, 2000
di David Fincher, con Brad Pitt, Edward Norton, Elena Bonham Carter, Meat Loaf.

Fight Club è un'esplosione.
E' il momento in cui il cinema mette una bomba nel proprio appartamento e si chiede chi sia stato l'attentatore.
Secondo Chuck Palahniuk, l'autore del libro da cui è stato tratto il film e ormai uno degli scrittori americani contemporanei più letti, quello di Fight Club era un progetto troppo eversivo esteticamente ed eticamente per essere prodotto da una major hollywoodiana, ma contemporaneamente aveva troppe cose buone per essere abbandonato. Qualcun'altro avrebbe prodotto l'idea e avrebbe soffiato un buon film alla Fox. Questa "inevitabilità" produttiva è una caratteristica che pochi film hanno, ed è fortemente simbolica della condizione di Fight Club. La pellicola di David Fincher è talmente piena di immagini, a loro volta così dense e forti, che fa letteralmente fatica a contenerle: un primo piano troppo intenso di Tyler Durden scuote la pellicola, arriva a minare i limiti del quadro. Il suo sguardo in macchina, tra l'iroso e lo sfidante, sottolinea la limitatezza della possibilità della visione, e svela quanto il mezzo sussulti e scricchioli esposto alla realtà folle e insieme rigorosa dell'idea alla base di Fight Club. D'altronde lo stesso Durden è un proiezionista, capace di controllare e condizionare la visione altrui alterando l'essenza stessa del cinema, sporcando la matrice di un certo tipo di immagini con un fotogramma che fisicamente è identico a tutti gli altri, ma che se attraversato dalla luce rimanda un'immagine completamente decontestualizzata, un'immagine invasiva, quindi violenta e quindi shockante. La punta massima delle possibilità del "proiautore" ghezziano. Inserire un fotogramma subliminale tratto da un film porno in una pellicola della Disney equivale a iscrivere il cinema stesso ad un adrenalinico, sporco fight club. Si fanno cozzare due illusioni, due pretese di realtà per crearne una nuova, originale, non pacificata, forse folle. Ma che in qualche modo ritrova, come l'effetto benefico che il combattimento bruto ha sui partecipanti, il senso e l'essenza del mezzo stesso. Lo denuda e lo rivivifica. Non è importante che sia "bello" o "brutto". Questa "esposizione della matrice" è ormai una costante di un certo cinema "ragionato" contemporaneo che trova le sue origini nell'opera narrativa vasta e anticipatrice dell'ormai in pieno rilancio - critico e commerciale - Phlip K. Dick. In Matrix il protagonista arriva a vedere una realtà ("la" realtà) fatta di simboli binari e a trascendere la primitiva (e falsa) concezione del suo corpo e del mondo fisico con una presa di coscienza che lo fa scontrare con se stesso e con le convinzioni di tutti quelli che credono in lui. Neo non è l'eletto (anche se lo diventerà). Tyler Durden va in giro con un megafono dichiarandoci che non diventeremo mai ricchi e famosi: "tu non sei un meraviglioso e unico fiocco di neve". In eXistenZ di David Cronenberg, un progettista di giochi "di ruolo" che si interfacciano direttamente con la carne umana mette in piedi un abisso di realtà parallele che in conclusione ingannano lo spettatore e gli stessi personaggi del film che ne vivono l'inganno in modo apparentemente consapevole. In Fight Club la scoperta della psicosi di Edward Norton fa lo stesso inaspettato percorso: il nevrotico ma "comprensibile" personaggio in cui dall'inizio riponevamo la nostra empatia è anche il folle terrorista di cui abbiamo imparato a diffidare, e quello stesso personaggio realizza questa presa di coscienza nei medesimi tempi e modi dello spettatore. Ma Fight Club fa un passo avanti rispetto a tutti in almeno una direzione: quella del nichilismo. Se Essi vivono di John Carpenter si chiudeva con un inizio, la scoperta di una realtà agghiacciante che attanagliava subdolamente l'esistenza dell'uomo, e la prospettiva era in qualche modo sospesa (ci sarebbe stata una ribellione allo stato delle cose o il potere avrebbe continuato a essere esercitato nonostante tutto?), il film di David Fincher è in fondo la storia di uno psicotico che si inventa la sua malattia e ci si perde dentro per attirare l'attenzione di una donna, coinvolgendo e sconvolgendo una buona fetta di realtà intorno a lui. Oltre questo non c'è altro. Non il complotto di un uomo o di un gruppo per ottenere il controllo o la distruzione. E neanche, in fondo, la calcolata e quasi simpatica anarchia da "loser" di Tyler Durden. C'è solo un'animale, fine a se stessa, morbosa e inutile follia a cui basta descriversi e richiudersi in se stessa per affascinarci. E lo stesso realismo disturbante nella rappresentazione del male fisico, delle mutazioni corporee dovute alla violenza è efficacissimo nel suo essere, fondamentalmente, puro exploitation, estremo sfruttamento del piacere morboso del macabro. Fight Club è talmente autolesionista e violento nei confronti dello spettatore che si passa dalla concezione di cinema come spettacolo quella di cinema come aggressore. Aggressività che, a sua volta, è già un altro tipo di spettacolo e intrattenimento, e in realtà solo un livello della narrazione. La complessità di un film come Fight Club è difficilmente analizzabile, perché è profondamente sfuggente: tutto quello che il film sembra offrirci ha l'aspetto di un'illusione, e mai viene sciolto il dubbio se davvero sia così o se attraverso incontri clandestini di lotta selvaggia e l'utilizzo dei rifiuti del processo di liposuzione sia possibile colpire, e quindi capire, la realtà impiegatizia di cui tutti hanno paura. Ma che tutti accettano quasi subliminalmente come unica forma possibile di convivenza sociale.