the Prestige

Il fascino insondabile del trucco svelato
di Francesco Rosetti

 
  id., Usa, 2006
di Christopher Nolan, con Hugh Jackman, Christian Bale, Scarlett Johansson, David Bowie, Michael Caine


Le figure simboliche che occupano il centro della riflessione di Nolan in questo suo ultimo film sono almeno due. Una di ordine narrativo-romanzesco, il doppio, una di ordine visivo-rappresentativo, il trompe l’oeil, il trucco, l’immaginazione che, anche rivelando la propria illusorietà suscita ugualmente credenza. Proprio alla connessione tra queste due figure e alla reciproca integrazione in un’arte composita, quale il cinema continua ad essere, Nolan rivolge da sempre la sua attenzione, e proprio in questo film, forse proprio perché più aperto nonostante la sceneggiatura matematica (e anche la diade tra scrittura registica e sceneggiatura, che in Nolan poi sono due parti di un unico processo creativo, essendo il regista anche sceneggiatore delle sue pellicole, è uno dei temi fondanti che il film sviluppa), quasi volutamente irrisolto, anche nel finale spettacolare e apparentemente chiarificatore, il suo discorso teorico si fa particolarmente chiaro. Andiamo con ordine: abbiamo parlato del doppio. Ed in effetti è fin troppo banale notare come la coppia di protagonisti, ossessionati l’uno dall’altro, essendo entrambi illusionisti, mantenga una relazione di specularità, tanto più inquietante dal momento che il doppio diventa esplicitamente qui la parte di sé non amata, il rimosso da distruggere tanto più nel momento in cui mostra le affinità con il soggetto e non la diversità. La scelta di Nolan ricade non a caso su Hugh Jackman e Christian Bale, che già aveva lavorato con Nolan in quella virtuositica giostra di doppi e giochi di specchi che era Batman begins. Entrambi agli occhi del pubblico di massa rappresentano delle icone in quanto star, come icone a loro modo erano i maghi di epoca vittoriana, quindi hanno da subito un appeal in quanto immagini nei confronti del proprio pubblico. Entrambi sono icone, e qui il discorso si fa più complesso in quanto le propria figure di attori, ad oggi, si costruiscono in rapporto ad altre a due icone pop di personaggi di supereroi, quindi la loro figura di interpreti, ancorché ottimi, acquisisce riconoscibilità in quanto Jackman è sostanzialmente Wolverine, Bale è Batman. Due supereroi, tra le altre cose, estremamente ambigui, con un elemento interno, inconscio, animalesco (lo scheletro di adamantio, la maschera da pipistrello), che emerge all’ esterno, diventa se non visibile, percepibile, mantenendo tutta la sua qualità di feticcio disturbante. Senza divagare troppo, in questo film le due icone ambigue di Jackman e Bale vengono fatte collidere, i due si specchiano l’uno nell’altro e vedono nell’altro ognuno quell’elemento ambiguo che vorrebbero vedere esterno a sé stessi, ma che essi invece, come Willam Wilson in Poe, "il Sosia" in Dostoevskij, Clare Quilty in "Lolita" di Nabokov o di Kubrick, incarnano perfettamente. Fin qui siamo in una zona interna alla narrazione e ad un utilizzo astuto e smaliziatissimo da parte di Nolan dei simboli rappresentati dai suoi attori-icona. Robert Angers-Jackman, l’istrione, l’affabulatore, è costretto, anche attraverso il complesso gioco di flashback e flashforward che costituisce oramai una cifra personalissima del regista, ad essere Bale, Alfred Borden-Bale, lo stilista, l’artista rigoroso, è costretto ad essere Jackman, nonostante le differenze di carattere ed approccio ai numeri di illusionismo. Ma dietro la magia, per esplicita dichiarazione di Nolan stesso, fa capolino il cinema, meglio una tipologia di cinema, quello meliesiano, che si nutre dello straordinario, dell’inconsueto, della baracconata, per renderlo allo stesso tempo mozzafiato, ma anche gradevole e riconoscibile, quello che Godard avrebbe definito “ordinario dello straordinario”. L’illusionismo è un trionfo dell’immaginazione perché rende plausibile, fragrante per i sensi (non solo l’occhio, ma anche gli altri sensi, per dare una reale percezione sinestetica del numero e dell’effetto di realtà che simula), ciò che invece altro non è se non un trucco di prestidigitazione. Siamo, con qualche variazione, a quello che è un vero e proprio trompe l’oeil barocco nel senso molto vasto di inganno dell’occhio e non solo o non tanto di simulazione di uno spazio inesistente ma otticamente credibile. Non a caso Michel Caine cita tre momenti fondamentali nella genesi e nella riuscita di un buon numero di magia e illusionismo. La promessa, la svolta, il gioco di prestigio vero e proprio. La promessa o meglio, cinematograficamente, visivamente, il momento in cui il mondo banale riprodotto si carica di una verità potenziale che lo rende improvvisamente affascinante, nuovo, perturbante. Caine sa che il trucco può avvenire solo se prima viene mostrato qualche oggetto, una situazione banale, ma già carica di inconsueto, poiché l’occhio è attratto proprio dall’elemento inconsueto delle situazioni normali mostrate. La promessa, insita nella più semplice rappresentazione, come nel più semplice dei numeri è un effetto di realtà potenzialmente destabilizzante perché già illusorio: l’immaginazione si è attivata. La svolta è il momento in cui l’incongruo si manifesta e si manifesta proprio dietro quell’illusione di normalità appropriandosi di quell’effetto di realtà che il trompe l’oeil garantiva. L’ illusionismo, come il cinema, apre con la rappresentazione, già di per sé spettacolare, ma ancora vincolata ad elementi di normalità. Quell’ effetto speciale, già insito nella messa in scena più semplice, esplode in sarabanda di effetti scenografici (e registici e narrativi) quando il numero prende campo, rompendo la rappresentazione ed esplicitando il momento dello spettacolo. L’immaginazione irrompe nella visione razionale costringendo lo spettatore: a immergersi in ciò che vede, nella sua impossibilità, a immergersi in sé stesso, nell’esperienza carica di fascino prerazionale che sta facendo. Il terzo momento, il gioco di prestigio vero e proprio, consiste nel dare definitiva illusione di realtà a qualcosa di impossibile dal punto di vista razionale e dell’ esperienza, ristabilisce l’ equilibrio della rappresentazione, mantenendosi però invisibile agli occhi del pubblico, immerso nel fascino affabulatorio del numero, non in grado di spiegarlo razionalmente. In un certo senso il proprio effetto è duplice. Da un lato ristabilisce la razionalità, poiché la tensione si scioglie, dall’altro solo il regista illusionista conosce il segreto del trucco, dunque dalla visione si esce comunque con l’ elemento perturbante intatto. Il barocchismo di queste messe in scena arriva ad investire la scena, quando compare sulla scena Nikolas Tezla, non a caso David Bowie rappresentato più come un alchimista, una figura di confine tra il mago ciarlatano e lo scienziato, che come accademico puro, con i suoi esperimenti sul magnetismo e con l’ evocazione di immagini e corpi duplicati, l’energia, l’esperienza pura e il fascino della riproduzione di corpi, anche solo come immagini, tutto materiale che poi è convogliato nella ricerca cinematografica. In tutto questo bailamme metacinematografico Nolan infila il suo tema portante mescolando il doppio al trionfo dell’immaginazione e, soprattutto, al corpo come non luogo, virtualità pura dove il soggetto e le sue memorie si confondono, si sdoppiano, diventano pluralità. Il film si snoda così come un itinerario labirintico dove i personaggi, e con loro lo spettatore, sono ossessionati da una duplice tipologia di desiderio. Quella di perdersi in quel mondo di esperienze che l’illusionismo presenta e quello, opposto, di ritrovare un elemento identitario, di non perdere la razionalità per orientarsi in questo universo barocco, rutilante ma, appunto, labirintico. La narrazione da fogliettone ottocentesco, da melò quasi più che da thriller, aderisce bene a questo percorso, lo snoda e riannoda senza soluzione di continuità. Ma soprattutto è sul finale, sul colpo a sorpresa, il trucco appunto, su cui la struttura narrativa regge che definisce la propria efficacia. Nolan, autore, regista, non è un semplice illusionista, lo spettatore sa che il gioco c’è, quindi il regista gli da le tracce per comprendere il trucco fin da metà film, e poi giocarlo quando chi guarda si accorge che l’ effetto sorpresa è arrivato comunque. L’ effetto perturbante è proprio questo, quando ci si accorge che immedesimazione e straniamento possono quasi coincidere, o almeno somigliarsi.