la Guerra dei mondi

Essere o non essere (Spielberg)?
di Adriano Ercolani

 
  War of the worlds, USA, 2005
di Steven Spielberg, con Tom Cruise, Dakota Fanning, Miranda Otto, Tim Robbins


Quello che molti hanno chiamato il “nuovo” Steven Spielberg non nasce da un cambiamento di rotta dovuto ad un improvviso, “adulto” pessimismo che ha pervaso il regista negli ultimi anni - è ora di smettere di credere all’impossibile: il creatore di E.T. e di Indiana Jones non sarà mai un autore pessimista - ma da una raggiunta maturità di uno degli aspetti meno visibili della sua poetica cinematografica. Il fraintendimento di questa metamorfosi, che molta critica ha creduto di vedere a partire da Schindler’s List, a nostro avviso deve essere riportato alla fine degli anni ’90, e soprattutto svelato per quel che è: l’ennesimo colpo di genio del cineasta di Cincinnati, che ha capito che si può fare del grande spettacolo anche attraverso l’accentuazione personale di una delle componenti più ambigue eppure più imprescindibili del cinema stesso: il realismo. In molte delle sue opere precedenti, da Lo squalo a L’impero del sole, il tentativo di raccontare “storie” che avessero una forte presa sulla realtà tangibile dell’evento ha caratterizzato la sua idea di cinema, spesso frustrata dalla propria propensione all’ariosità “mainstream” della messa in scena, dall’occhio malevolo della critica e soprattutto dalla mancanza di mezzi tecnici adeguati alla propria visione. Sotto questo punto di vista, il film che ha segnato la vera svolta all’interno della spettacolarità dell’opera di Spielberg, verso appunto un’estetica maggiormente realista, è stato senza dubbio Salvate il soldato Ryan: da quel momento il suo cinema si è appropriato di questa nuova componente riuscendo mirabilmente a sfruttarla anche inserita in generi e contesti del tutto eterogenei tra loro: la fantascienza del perfetto Minority Report e dell’imperfetto A.I. - Intelligenza artificiale, oppure la commedia amara di Prova a prendermi. Ebbene, di qualsiasi tema Spielberg si sia occupato, questo modo di fare cinema, finalmente compreso in tutte le sue potenzialità, è stato espresso con ammirevole coerenza.
Almeno fino a La guerra dei mondi. Desideroso probabilmente di scrollarsi di dosso una volta per tutte l’ultimo legame con il suo fulgido passato di “grande narratore di favole”, questa volta il cineasta ha voluto fare i conti con i suoi amati alieni, trasformandoli da limpidi portatori di civiltà e saggezza a devastatori ed assassini assetati di sangue. Il risultato è una specie di confuso “film a tema” che smentisce clamorosamente se stesso: invece di dimostrare il raggiunto stato di disincanto di Spielberg, ne conferma invece la tendenza (non troppo) latente alla retorica, soprattutto in una parte finale di stucchevole melensaggine. Sembra che per l’intera durata della pellicola l’autore voglia a tutti i costi mettere in scena l’orrore ed il raccapriccio, attraverso delle trovate - sia visive che inserite nella storia - che poi invece rimangono inespresse soprattutto sul piano puramente visivo. Sotto questo punto di vista, la costante volontà di tenere fuori campo i momenti più truculenti del film esprime in pieno la confusione prima ideologica e conseguentemente estetica con cui è stato girato La guerra dei mondi. La matrice che abbiamo individuato come “realistica” si esprime nel lungometraggio come precisa attenzione alla verosimiglianza degli effetti speciali, oppure attraverso la grande preparazione scenografica e lo stile documentaristico della fotografia - non è da sottovalutare l’apporto di Janusz Kaminski in tutta l’opera recente di Spielberg. Per il resto, La guerra dei mondi non racconta né mette in scena nulla di nuovo rispetto ai disaster-movie apparsi negli ultimi dieci anni.
Oltre a questa sfasatura di fondo che si snoda sotterranea ma costante e fastidiosa, il film ha poi un altro enorme punto di debolezza nella peggior sceneggiatura su cui è stato costruito un blockbuster di tali dimensioni produttive, almeno in tempi recenti. Lo script di David Koepp - che altrove ha dato invece prova di interessante raffinatezza drammaturgica - nella prima parte sbaglia completamente sia il ritmo della narrazione che la strutturazione dei personaggi, stupidamente incollati ai loro caratteri monodimensionali. Se tutta la prima parte del film è solamente una lunga seppur spettacolare fuga, la cesura tra lo scontato ed il ridicolo è però particolarmente evidente con l’arrivo in scena della figura interpretata da Tim Robbins: da quel momento i sottotesti e le metafore del film diventano palesemente e smaccatamente moralistici; la narrazione inizia a procedere per accumulo insensato ed illogico di eventi, e soprattutto la vicenda si chiude con il più inimmaginabile ed imbecille deus ex machina che si poteva proporre al pubblico.
Nulla da salvare allora in quest’ultima fatica di Spielberg? La sequenza del primo attacco alieno, magnificamente dotata di fredda lucidità registica e di notevole senso del ritmo. E Dakota Fanning, sempre più brava. Per il resto, nulla.
La guerra dei mondi sembra essere un colossal ideato ed assemblato con troppe idee che tra loro non hanno saputo combaciare. Costruito su un’impalcatura narrativa che non regge, il lungometraggio crolla sotto tutti i livelli di credibilità, non riuscendo neppure a porsi come mezzo di comunicazione atto a trasportare al pubblico l’emozione del cinema, sia essa positiva o volutamente tendente a spiazzare, scioccare. Sotto questo punto di vista, opere come Mars Attacks! o The Day After Tomorrow hanno maggiormente centrato il tentativo di connessione con lo spettatore.