la Foresta dei pugnali volanti
Il melò danzato
di Francesco Rosetti

 
  Shi Mian Mai Fu, Cina, 2004
di Zhang Yimou, con Takeshi Kaneshiro, Zhang Ziyi, Andy Lou


Fare il genere, decostruire il genere
Si è scritto, e lo stesso Zhang Yimou lo ha confermato nelle sue dichiarazioni, che, se Hero costituiva un’incursione in un genere, il film in costume con arti marziali, da parte di un regista che ne rimaneva estraneo ai codici rappresentativi e dunque lo approcciava con una decostruzione esplicita (la struttura Rashomon), La foresta dei pugnali volanti sarebbe invece il vero e proprio film wuxiapian di Zhang Yimou. Ovviamente, pur rispettando la volontà di Zhang Yimou come di ogni altro regista di occultare parzialmente la complessità delle proprie operazioni filmiche nelle interviste, non è così che stanno le cose o, almeno, siamo di fronte ad un’asserzione vera solo in parte. Questo perché anche La foresta dei pugnali volanti è una decostruzione, una riflessione molto articolata sulle regole di messa in scena di un genere, ma lo è in maniera più sotterranea, dal momento in cui il momento metalinguistico si nasconde sotto la superficie del film. Da questo punto di vista La foresta dei pugnali volanti appare come la logica continuazione di Hero, il suo naturale sviluppo, non la sua negazione. Hero era già un film wuxiapian, l’immersione in una serie di regole, di stereotipi a cui Zhang Yimou non derogava. Solamente, al repertorio del genere di riferimento (combattimenti, romanticismo esasperato fin quasi al melò, coreografismo spettacolare dei combattimenti, lavoro sulla spazialità dei movimenti del corpo) aggiungeva un suo personale repertorio, o meglio lo sovresponeva in quanto a visibilità. Un esercizio raffinatissimo e di raro equilibrio, ma che tradiva il timore di non riuscire a padroneggiare un modo di narrare e inquadrare con delle proprie regole. Così Zhang Yimou sovraesponeva il versante mitografico-politico, lo rendeva più fruibile. Così Hero risultava anche un saggio sul genere wuxiapian, osservato con circospezione e rispetto dall’esterno. La foresta dei pugnali volanti segnala come Zhang Yimou, forse più sicuro dei propri mezzi registici, si sia nel frattempo completamente immerso nei codici wuxia, senza perdere lucidità critica, anzi. Anche La foresta dei pugnali volanti è una decostruzione, solo operata dall’interno del genere, senza il bisogno di sovresporre il momento critico-saggistico, rispetto a quello melò o a quello coreografico. Si potrebbe dire che questo secondo esperimento di Zhang Yimou nel mondo delle arti marziali in costume sia più vicino del precedente all’idea di autorialità postmoderna. Intendiamoci, Hero era interamente postmoderno nella frantumazione spazio-temporale e nell’incessante riscrittura della sua ossatura narrativa, ma appunto nascondeva un residuo del bisogno d’autore di organizzare il caos narrativo, di gestire il cangiantismo della Storia (e delle storie). Qui c’è un abbandono al libero gioco di una trama altrettanto cangiante e frantumata in un gioco di specchi al limite del virtuosismo (primo e ottimo modo di criticare un genere: rifarlo. The Aviator costituirà un altro buon esempio)

L’immersione della storia nella natura
Hero era un film dalla grande eterogeneità di location, di set, quindi di dominanti cromatiche: senza entrare nella complessità di messa in scena di quel film basterà notare che, ad un’attenta analisi, ciò che saltava agli occhi era una continua contrapposizione tra spazi aperti (una natura sterile e ostile quanto affascinante) e spazi chiusi(gli interni geometrici e poco luminosi, la civiltà che, fin dai tempi di Lanterne Rosse, per Zhang Yimou, è prima di tutto claustrofobia). In quest’ultima pellicola dominano gli esterni, una foresta inquietante quanto lussureggiante, di scene in interno abbiamo in pratica soltanto quella nel “Padiglione delle peonie”. Cosa vuol dire questa immersione nella natura, nella dominante paesaggistica (virata in digitale), dello sguardo registico? Certo non vuol significare un recupero di uno spontaneistico rapporto dell’uomo con la natura, ma piuttosto è una riflessione su una complessa dialettica tra uomo civilizzato e l’assoluta alterità dello spazio naturale. In Hero, l’imperatore e il suo potenziale distruttore impostavano la narrazione (la Storia) come una partita scacchi, per dare delle regole certe alle proprie pedine (e loro stessi risultavano essere delle pedine). Qui, invece i tre protagonisti nella foresta cercano di liberarsi dalla propria condizione di pedine, senza peraltro riuscirvi. Che cos’è la civiltà ne La foresta dei pugnali volanti? Due fazioni in lotta, di cui Zhang Yimou non dà che una descrizione minima e sommaria, legate da una concezione del potere e della lotta politica basati sulla dissimulazione e sulla crudeltà. I tre personaggi principali sono obbligati dalla propria fazione a mascherarsi (forse la civiltà intera in questo caso è una maschera) e a rinnegare non tanto i propri sentimenti, quanto la nozione di sentimento, vale a dire di qualcosa che non corrisponda ad una gelida ragione politica, anzi, ragione di stato. Lo stereotipo degli amanti divisi da una guerra diventa così una riflessione su come un’organizzazione manipoli originariamente gli stati d’animo dei suoi affiliati, derivando da questa sopraffazione la propria sovranità. La foresta come alterità è il luogo dove i personaggi a questo punto si perdono (la cecità rispecchia una perdita di orientamento non solo di Zhang Ziyi, ma anche dei due suoi amanti-persecutori), riconoscendo una dimensione diversa delle proprie esistenze. La foresta, con i suoi amplissimi paesaggi, digitali o naturali che siano, diventa il simbolo di questo desiderio riacquistato dei personaggi. Attenzione, lo splendido cromatismo della fotografia non vuol dire, come abbiamo già accennato sopra, il recupero di un primigenio stato di natura, ma di un paesaggio interiore, da melò, visto che i tre protagonisti recuperano la propria dimensione desiderativa, di fatto rinnegando il proprio ruolo e tradendo ognuno la propria fazione. Ci sarà una battaglia tra il governatore generale della provincia (mai inquadrato) e il capo dei pugnali volanti (inquadrato in una sola sequenza), ma ai tre protagonisti non interessa più, essendo letteralmente fuori dalla Storia.

La coreografia e l’apertura dello spazio
Stilando un primo bilancio di questo dittico wuxia di Zhang Yimou verrebbe da chiedersi perché il regista cinese espliciti proprio nell’intrattenimento di massa il repertorio tematico altrimenti trattato in Lanterne rosse, ad esempio. Probabilmente, perché nel film di arti marziali ci sono le coreografie, quindi il corpo, libero anche dalla legge gravitazionale (dalla legge tout court). Più volte i combattimenti di arti marziali nei film di Hong Kong o nelle pellicole giapponesi sono stati equiparati alle coreografie danzate del musical. Fatte salve le differenze di provenienza culturale, in effetti le due tipologie di numero danzato hanno molto in comune: in entrambi i casi infatti, abbiamo una sospensione della narrazione in favore di un puro dinamismo visivo. Il senso non è dato più da altro che dai movimenti di macchina in armonia con un corpo libero di propagarsi nello spazio e di riscriverlo a piacimento. Nel musical lo spazio è costruito da un corpo che si muove a ritmo di musica, Fred Astaire e Gene Kelly costruiscono e smontano di continuo lo spazio a ritmo di musica. Come a dire che ci si orienta con l’udito e non con l’occhio. Niente di più simile alla sequenza dell’eco danzante. Anche in questo caso la danzatrice Zhang Ziyi non ricostruisce lo spazio tramite gli occhi, ma riorganizza una complessa trama spaziale tramite il suono, fa letteralmente risuonare il proprio corpo del ritmo dei tamburi. Il numero coreografico del combattimento o del balletto (che a svolgerlo sia Fred Astaire o Bruce Lee poco importa a questo punto) rappresenta questo moto liberatorio, che Zhang Yimou asseconda con lo sfarzo del colore e della fotografia (come nel melò sirkiano o di Almodóvar, il colore erotizza la messa in scena, la fa vibrare). Ed ecco che un film godibile come entertainment purissimo si volge in operazione d’autore altrettanto pura e densissima.