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the Aviator

La lotta e il compromesso
di Stefano Finesi

 
  id., Usa, 2004
di Martin Scorsese, con Leonardo DiCaprio, Cate Blanchett, Kate Beckinsale, John C. Reilly, Alec Baldwin, Alan Alda, Ian Holm, Jude Law, Gwen Stefani


Accostandosi a The Aviator, si capisce forse come Gangs of New York abbia segnato una svolta importante nel cinema di Martin Scorsese, una svolta in due direzioni: verso una grandeur produttiva che sembrava essere assente in precedenza, anche nelle opere che avevano goduto di budget consistenti, e verso un allargamento del proprio discorso morale a una più globale visione della storia americana. Non che queste tensioni, va ribadito, fossero mai mancate al cinema di Scorsese, soprattutto quello sguardo critico verso la bandiera a stelle e strisce che si estende da Boxcar Bertha fino a Casinò, ma entrambe ora appartengono a un discorso e a una pratica di respiro molto più ampio. Sembra che quello che il regista ha perso in termini di nervosismo della forma e della messinscena e di ineguagliabile resa visiva, sia stato disteso in progetti meno compatti e appuntiti ma più ambiziosi, complessi, eterogenei: il cinema di Scorsese ha assunto, insomma, un carattere maggiormente monumentale, definitivo, quasi predicatorio.

Un gigante contro l’America
Come ci è capitato di scrivere diverse volte, il rapporto tra il singolo e il suo gruppo d’appartenenza e tutti gli attriti che questo comporta, è il tema che ha attraversato incessantemente l’opera del cineasta americano, sia che parlasse di mafia che della società aristocratica del primo novecento: il risultato è stata un’analisi acutissima della natura dei rapporti sociali che, partendo spesso da un semplice esperimento di laboratorio, si allargava progressivamente a considerazioni molto più estese. Con The Aviator la strategia drammatica che tracciava il percorso dalla “storia” alla “Storia” viene elusa dal momento in cui la Storia è presa di petto senza mediazioni, in cui il discorso assume direttamente proporzioni magniloquenti e totalizzanti.
Qui entra in scena Howard Hughes. Ovvero, l’uomo dei record economici, sportivi, cinematografici, sentimentali, il gigante necessario a giocare una siffatta partita ad armi pari. Hughes, non è un caso, a soli 18 anni è già orfano, completamente affidato a se stesso nell’amministrazione del patrimonio famigliare: anche i comportamenti ossessivo-compulsivi, che con il passare degli anni assumeranno un carattere sempre più drammatico, escludendolo di fatto dalla vita sociale, sono un sintomo-conseguenza dell’isolamento torreggiante dell’uomo, protagonista perfetto dello scontro che Scorsese sceglie di mettere in scena.
Hughes è solo contro l’America ed è tra i pochi a poter permettersi un conflitto di tale livello. Se era facile leggere in filigrana la storia del capitalismo e della politica americana in film come Quei bravi ragazzi o Casinò, The Aviator porta entrambi alla ribalta come antagonisti diretti; se la lotta dei protagonisti scorsesiani per affermare la propria individualità cozzava inevitabilmente con le barriere ataviche dell’ordine prestabilito del proprio contesto sociale, Hughes si dibatte inesausto tra i legacci di un intero paese, combattendone a mani nude l’ipocrisia, i pregiudizi, la corruzione. Assistiamo così alle battaglie contro le corporation per mantenere il possesso della TWA, a quelle contro il senatore Owen Brewster, che lo trascina in tribunale per favorire la concorrenza, a quelle condotte per allargare i confini tecnologici e ingegneristici dell’epoca, ma anche quelli morali, con lo scandalo del seno a vista di un’esordiente Jane Russell ne Il mio corpo ti scalderà.
La prima sequenza di The Aviator contiene d’altra parte il tema centrale del film per intero, come riesce solo ai grandi cineasti. In una stanza silenziosa e fiocamente illuminata da un camino, la madre di Hughes fa il bagno al piccolo mentre gli insegna la parola “quarantena” e lo mette in guardia contro un’epidemia nei paraggi: la solitudine del protagonista e al tempo stesso la sua natura di privilegiato sono già esemplarmente raccontati e precipitano nella parola “quarantena”. Hughes non potrà isolare il resto del mondo per proteggersi dal suo contagio, ma dovrà isolare se stesso e per farlo sarà costretto a combattere.

Compromessi a buon fine
L’importanza di The Aviator nella filmografia di Scorsese e il suo valore di svolta si lega però non solamente all’enfasi narrativa, ma anche, come abbiamo sostenuto all’inizio, a una nuova magniloquenza produttiva e a tutto ciò che ne consegue. Due novità fanno ingresso nel cinema del regista, che vale la pena di sottolineare: il mondo di Hollywood, che egli si trova a raccontare per la prima volta, con i suoi retroscena, le sue meschinità, le sue grandezze; le tecnologie digitali, usate non solo come correttivo inevitabile per i numerosi effetti speciali, ma spesso come pura scelta fotografica. Se è vero che era impensabile affrontare la biografia di Hughes senza lasciare ampio spazio al racconto dell’industria del cinema degli anni trenta e quaranta, è comunque interessante evidenziare come proprio nel momento in cui Scorsese abbraccia pienamente una filosofia dello spettacolo bigger than life, Hollywood faccia capolino nel suo cinema, trascinando con sé le contraddizioni dell’essere un mondo a parte fatto di moralismo e sregolatezza, ricchezza e miseria sconfinate. Hughes si muove con impaccio in questo mondo, non sa stare alle sue regole, per ingenuità o tracotanza, e l’unico rapporto possibile è una nuova sfida: girando il film più costoso della storia, battendosi contro la censura, intrecciando e sciogliendo storie d’amore con le più belle dive dell’epoca.
Scorsese, ovviamente, non somiglia in questo al suo protagonista: il compromesso con le esigenze delle major è condotto con classe e astuzia, anche, appunto, nella concessione (ammesso che sia stata una concessione...) al digitale e alla rinuncia a quell’integralismo cinefilo sulla pellicola che lo aveva contraddistinto fin dai tempi della battaglia contro la Kodak per lo scarso fissaggio del colore della Eastman. La questione del digitale, la cui resa negli interni resta spesso fastidiosa, è comunque solo il sintomo più evidente di una serie di compromessi (narrativi e di messinscena) che obbediscono a precisi dettami del mainstream e conferiscono a The Aviator l’appeal da blockbuster necessario alla svolta produttiva che il regista ha voluto affrontare.
La scommessa è rischiosa, ma l’impresa di far decollare e atterrare un film di tali smisurate proporzioni somiglia in fondo a quella accettata dal suo Hughes per far volare l’Hercules, l’aereo più grande del mondo: la Storia darà ragione a entrambi.