Hero

La storia e l’atto della scrittura
di Francesco Rosetti

 
  id., U.S.A / Cina, 2002
di Zang Yimou, con Jet Li, Tony Leung, Maggie Cheung, Zhang Ziyi, Daoming Chen


Di fronte alle immagini di Hero (ed all’ accoglienza schizofrenica che il film ha avuto in Italia) viene in mente una frase detta da Erwin Panofsky, in un suo famoso saggio sul cinema, allora medium ancora in cerca di legittimazione estetica (era il 1934), o quantomeno di una sistemazione nel sistema delle arti maggiori. Ebbene Panofsky, a proposito della straordinaria diffusione di massa del consumo di film, notava come “I film sono nella vita moderna ciò che la maggior parte delle altre forme di arte ha cessato di essere, non un ornamento, ma una necessità”. Ebbene oggi, ad uno stadio ben più avanzato dei sistemi di comunicazione di massa e della società dello spettacolo, si dovrebbe poter affermare in tutta tranquillità che non è più così, che il cinema abbia perso quella centralità nell’ organizzazione di un immaginario e di un’iconografia condivisi, a favore di un numero sempre crescente di media che operano sull’ immagine e le sue complesse valenze iconiche. Invece nell’ approccio a Hero si tradisce un metro giudizio fondamentalmente contraddittorio, oscillante tra due posizioni opposte e inconciliabili (che cercheremo vagamente di descrivere): da un lato una visione (datata) del cinema come arte tout court, speculazione estetica pura, slegata da qualsiasi esigenza comunicativa con un pubblico diffuso, quindi pronto a sfruttare la sua nuova natura di ornamento, per riflettere sulle forme della sua significazione. Dall’ altro la riaffermazione (datatissima) di una vocazione essenzialmente popolare del cinema, arte-spettacolo, carrozzone in cui anche la figura autore assume valore fin quando si piega alle regole di una comunicazione primaria e pienamente godibile da un occhio spettatoriale non troppo sofisticato, vale a dire poi il genere. Per questo un kolossal wu xia pian, genere popolare per eccellenza in estremo oriente, e, tramite le ambascerie di Tarantino e Ang Lee, oramai degustabile anche da palati del pubblico statunitense ed europeo lascia così sconcertati quando a dirigerlo sia un regista come Zhang Ymou il quale, come quasi tutti gli autori di rilievo, sconta il fatto di rimanere ingiustamente impagliato in categorie definitorie troppo semplicistiche, in questo caso il regista da festival. Dietro questa imbracatura ovviamente c’ è l’operazione che il regista compie sul genere, che non è commerciale, formalistica, fredda o accademica, furbacchiona o eclettica op peggio ancora filoimperialista (nell’elegante doppia opzione bushista-capitalista o sino totalitaria, per chi vuole cercare in una pellicola sottilmente, ma pervicacemente ambigua al limite dell’ autocontraddizione, un elogio programmatico del potere costituito) Prima di tutto abbiamo la struttura narrativa che cita evidentemente Rashomon. Ebbene non siamo ad un tradimento della struttura narrativa del genere di riferimento, già di suo erratica, ma al suo ripensamento in chiave di gioco esplicitamente metanarrativo(cosa che già faceva Sergio Leone con il western ai tempi de Il buono, il brutto e il cattivo). Se il wu xia pian, nelle sue accezioni più rilevanti (Tsui Hark) è già una forma narrativa espansa, dalla incredibile varietà di situazioni e personaggi, un caleidoscopico gioco di specchi, false piste, sottostorie che incrociano la trama principale per poi svanire o fondersi con essa o continuare parallele, mettendo a dura prova le capacità mnemoniche dello spettatore e costringendolo di continuo a ripensare e ad aprire la struttura della rappresentazione alle continue variazioni sul tema propostegli, Zhang Ymou esplicita questa struttura metanarrativa e costruisce tutto il film come una variazione su un tema narrativo che deve di volta in volta perfezionarsi. Invece di tante sottostorie che scompaginano una trama in tante rappresentazioni differenti, qui abbiamo una singola storia riletta in una serie potenzialmente infinita di modi. La parafrasi di uno stesso singolo episodio qui è esplicita, ma nonostante ciò Zhang Ymou non rinuncia al genere, ai suoi codici, al suo scenografismo, che anzi porta ad un livello di rarefazione calligrafica impressionante (siamo pur sempre davanti all’ autore di Lanterne Rosse e Shangai Triads). La sfida a livello di narrazione che imbastiscono Senza nome e l’ Imperatore (non a caso paragonata dal regista ad una partita a Go, sorta di versione cinese degli scacchi) è appunto un modo di perfezionare sempre di più una rappresentazione, modularla in un’ esecuzione che ne sondi tutte le possibilità conoscitive. E qui si innestano le riflessioni più propriamente storico-filosofiche come quelle tecnico-formali di Zhang Ymou, dando il giusto tono metariflessivo a tutto il film. Il gioco che si istituisce tra Senza nome e L’imperatore non è un semplice divertimento letterario, ma ha a che fare con la stessa istituzione della Storia come disciplina scientifica, ma anche come narrazione, conoscenza delle categorie che regolano l’agire umano. Immersi in un tempo dai contorni vaghi e definibile senza problemi mitico e preistorico (anche se corrispondente ad avvenimenti cronologicamente abbastanza precisi) i due personaggi, nel movimento tripartito del film (tesi antitesi, sintesi) si inventano cantastorie per poter costruire la Storia e quindi sono costretti a lavorare come interpreti di tutta la complessa trama di avvenimenti riportati e raccontati diventandone simultaneamente registi e spettatori. Dalle storie sono scritti, ma quelle stesse storie riscrivono di continuo e, possibilmente senza soluzione di continuità. La conclusione a questo punto è sempre provvisoria, come il finale del film (accenno a Tienanmen?), tutto fuorché imperialista, si incarica di dimostrare. In fondo è la vocazione scritturale stessa della narrazione filmica ad impedire il raggiungimento di una verità data una volta per tutte, in sé e per sé, poiché, come già aveva affermato Roland Barthes, la scrittura identifica un orizzonte di senso, ma lo fa vibrare, sfocare, lo modula all’ infinito e non lo cristallizza. Da questa notazione di ordine rappresentativo (ogni forma di potere è anche una forma di rappresentazione del mondo secondo regole che si diano come immutabili) scaturisce la riflessione di ordine formale sul rapporto dialettico tra scrittura e potere. Il re di Qin ovviamente è deciso ad imporre un controllo sulla scrittura (che, storicamente parlando, porterà a giganteschi roghi di libri), il suo rapporto con il mondo è mediato dalla guerra e dagli eserciti (il suo corpo di arcieri) ed è quindi violento e manipolativo (appena apparso nella storia l’ uomo civilizzato è già homo faber). Quello che lentamente comprendono due dei suoi antagonisti, Spada Spezzata e Senza nome è che contrapporsi frontalmente e in modo violento al re di Qin significherebbe in fondo accettarne la visione e, cosa più grave, il metodo civilizzatore e pacificatore a ferro e fuoco. Il “sotto un unico cielo” di cui parla Spada Spezzata non è più allora un apologo di un potere totalitario che risolve i conflitti nella sua vocazione imperiale, ma un modo di mediare la volontà di potenza implicita nel principio di autorità del politico con il momento riflessivo del linguaggio. Soluzione di compromesso, semplificazione di questioni di ordine politico-antropologico ben più complesse? No, sua traduzione nelle strutture mitografiche di un genere, che è in grado di parlare (anche) dell’oggi proprio grazie alla sua lontananza spazio-temporale (la lezione del Lucas di Guerre StellariTanto tempo fa, in una galassia lontana lontana”), e quindi, tra le altre cose, può aggirare maglie censorie con agio e immettere dosi enormi di ambiguità in copioni, questi si, in gran sospetto di apologia dell’ impero (americano o cinese a questo punto cambierebbe ben poco). Zhang Ymou riflette sull’ ambiguità del linguaggio, visto sia come cardine di una istituzione (il re che scrive con la storia con la guerra), sia come momento riflessivo sull’ istituzione stessa (l’ imperatore ucciso “in effige” alla fine del film è letteralmente penetrato dalla vocazione scritturale dei suoi nemici, di cui comunque si dovrà fare garante in futuro), ed ha il merito di incardinare queste riflessioni nella forma del film e non solo di affermarle. Il calligrafismo, la perfezione grafica impressionante presa in prestito da Wong Kar Wai e dal Kitano di Dolls non sono una caduta nel pittoricismo o nel tableaux vivant, ma sono un superamento della pittura e del cinema nella perfezione scritturale della luce e del colore. Non siamo di fronte alla semplice estetizzazione della guerra e del combattimento resi paradossalmente “belli” (allora lo sarebbero anche “Le battaglie di S.Romano” di Paolo Uccello”, “Guernica” di Ricasso, per non parlare di Apocalypse now e qualunque forma di riflessione “estetica” sulla violenza), ma alla decostruzione nel puro dinamismo dei corpi. Il momento lirico non occulta il tragico del combattimento, semplicemente lo elimina nella qualità ritmico-formale del numero danzato (non a caso l’ arte del combattimento è messa a paragone con altre arti come la scrittura, la musica, l’ ideogramma) diventano pure funzioni mentali. Che questo processo sia lento, doloroso e mai finito lo sottolinea l’ apertura ambigua del finale (il re, vivo, ma solo, con dietro l’ ideogramma disegnato da Spada Spezzata, il suo antagonista). L’opposizione della scrittura alla sua cristallizzazione in formule corre sempre il rischio di diventare un docile strumento di un potere autoritario.