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la Città proibita
Man cheng jin dai huang jin jia, Cina, 2006
di Zhang Yimou, con Gong Li, Chow Yun-Fat


La secolare maledizione del ”mommio”
recensione di Giulio Frafuso



Avete presente, miei cari lettori, quando la mattina vi semi-svegliate ed il primo, unico impulso è quello di correre in cucina alla ricerca di qualsiasi cosa sia ingeribile sotto forma di liquido, e dal sapore anche vagamente dolciastro? Ebbene, per questa entità che dovrebbe fungere da colazione – possibilmente servita in tazza grande – io ed i miei coinquilini abbiamo coniato il neologismo di “mommio” – parola che, a rigor di logica, va pronunciata come “mmoommmmmmioooo” vista l’impossibilità a connettere e quindi parlare propria di chi si è appena svegliato, soprattutto a casa nostra…Tutto questo per dire che tale, parabolico infuso è l’unico protagonista interessante della prima ora di questo nuovo film di Zhang Yimou, in quanto “condito” con un funghetto (probabilmente) allucinogeno che prima o poi farà stonare di brutto l’imperatrice. Tutta la trama shakespeariana che viene intessuta in la Città proibita ruota intorno a questo progressivo avvelenamento, che più che rincretinire Gong Li ha il solo effetto di gelare il palazzo reale. Finché infatti la vicenda si svolge tra le magniloquenti mura della reggia, non succede proprio un bel niente. Come i protagonisti escono dalla città proibita e vanno anche solo alla locanda li vicino ecco che si scatena l’azione, molto ben orchestrata a livello visivo anche se non particolarmente originale – il momento migliore del film rimane il primo duello di spada iniziare tra padre/imperatore e figlio. L’anemia radicale di azione per un wu xia pian, anche se diretto da un esteta decisamente celebrale come Zhang Yimou, è un difetto imprescindibile. Ed anche quando lo scontro arriva, è decisamente mal organizzato a livello di ritmo, perché condensato in un’unica, ridondante battaglia di dieci minuti, mentre per il resto del film non succede praticamente nient’altro – inteso ovviamente a livello di “drama”, di azione che genera reazione.
L’incipit farsesco di questa recensione è servito in verità per mascherare, e neppure poi così tanto, la cocente delusione che la Città proibita ci ha purtroppo regalato, non riuscendo ad allontanare la noia neppure con le armi ormai esageratamente esplicitate di un cinema estetizzante. L’autore cinese sembra aver definitivamente perso di vista la strada della narrazione in favore di quella della metafora: se già il potente Hero soffriva di questo squilibrio ed il successivo la Foresta dei pugnali volanti ne veniva sopraffatto, con quest’ultima pellicola ci troviamo di fronte ad una vera e propria implosione del genere dentro una forma cinematografica che diventa fine a sé stessa. Yimou perde di vista il senso del racconto, o meglio del ritmo interno necessario ad ogni drammatizzazione, e si abbandona alla fascinazione cromatica di una messa in scena non giustificata, quindi troppo spesso forzatamente espressionista.
Spintosi evidentemente fino al limite della sua poetica visiva, il cineasta ha dimostrato di non saper padroneggiare con equilibrio la materia cinematografica, rendendo il rapporto tra forma e contenuto una vera e propria dicotomia. Da Zhang Yimou è lecito attendersi una ben maggiore spessore narrativo ed una più precisa attenzione allo sviluppo drammaturgico dell’opera.