l'Ora di religione

I pugni contro Roma*
di Adriano Ercolani

 
  Italia, 2002
di Marco Bellocchio, con Sergio Castellitto, Piera Degli Esposti, Jacqueline Lustig, Chiara Conti, Alberto Mondini, Gigio Alberti

La scena più forte e più importante del film, a suo modo emblematica, arriva verso la metà, e contiene in sé tutto il messaggio forte de L’ora di religione: il fratello, psicolabile, matricida e rinchiuso, viene tormentato dalla congrega di fratelli, parenti ed ecclesiastici vari, in modo da costringerlo a mentire, per poter così far canonizzare con buona pace di (quasi) tutti l’odiata madre. Quando arriva la crisi, il minorato sfoga la sua rabbia attraverso il supremo sacrilegio, la bestemmia. L’unico a vedere in quel gesto non il peccato, ma semplicemente lo sfogo per la propria condizione, è Ernesto, ateo e schierato contro fratelli e famiglia ipocrita; lo abbraccia e cerca di calmarlo, perché davanti a lui non c’è un peccatore ma un fratello malato. Dotato soltanto (anzi, soprattutto) del suo senso morale, il protagonista agisce in maniera più cristiana di tutti coloro che invece, spudorati opportunisti, si professano cattolici. La compassione di Ernesto è sentimento radicato nell’essere umano, e non comportamento imposto dall’introiezione di un insegnamento esterno.
Già questo semplice, elementare significato, basterebbe per trovare nella suddetta scena un valore aggiunto che, anche se in superficie, ne dimostra l’importanza; ma invece non è tutto qui, poiché nella bestemmia, atto eversivo, ma soprattutto nell’accettazione dell’atto da parte di Ernesto, possiamo trovare lo schierarsi non solo contro le imposizioni di una religione vista come castrante (il prologo del film, con il figlioletto che si ribella contro l’onnipresenza di Dio, ne è altro grande esempio), fatto più o meno opinabile, ma contro un sistema ipocrita e grottesco come quello della cultura cattolica romana. L’ora di religione urla tutto il suo disappunto contro un sistema bigotto, assurdo e decadente come quello che gravita intorno agli ambienti religiosi della capitale. Ad essere presentati come persone ridicole sono proprio i parenti stessi del protagonista, tutti intenti a sfruttare al meglio la possibilità di canonizzare una madre che, remissiva e perciò passivamente violenta, santa di certo non era. Tutti questi borghesi decaduti, insieme alla schiera di imbelli e patetici nobili che rimpiangono monarchia e valori “restauratori”, vengono incontrati da Ernesto nel corso del suo viaggio verso la liberazione finale da tutti i suoi fantasmi. Grazie all’importanza della messa in scena quello che avrebbe rischiato di diventare grottesco e ridicolo risulta invece perfettamente plausibile, come ad esempio tutta la sottotrama del duello con il conte pazzoide. Quella che viene perciò affermata con elegante rabbia dal film non è infatti la legittimità dell’ateismo del suo protagonista, quanto il suo diritto di essere libero e di esercitarlo a scapito del mondo in cui, suo malgrado, vive. Principale colpevole di questo stato di cose è anche e soprattutto Roma, arcana e perversa “mammona”, le cui architetture principali, simbolo sfacciato dei fasti e del potere occulto, vengono coraggiosamente distrutte e disciolte dal protagonista in una delle scene più evocative. Bellocchio, e questa è la grande forza della sua opera, riesce a non proporre al pubblico discorsi dogmatici e falsamente provocatori; preferisce lasciare allo spettatore la possibilità di scegliere cosa interpretare della vicenda che viene messa in scena: così tutti i personaggi hanno più di una dimensione, ed addirittura di molti non viene spiegata la significazione all’interno della storia - vedi la maestra di religione. La struttura della sceneggiatura, poi, è talmente coerente e lucida che quando il film finisce neppure ce lo si aspetta, e subito si capisce che invece tutto è già avvenuto senza che siano state proposte scene retoriche. La battaglia di Ernesto è quella quotidiana e comune di un uomo che lotta contro un sistema quotidiano e comune; le armi che ha a disposizione sono proprio azioni di tutti i giorni: parlare col figlio senza paura delle proprie idee non condivise, accompagnarlo a scuola, soprattutto innamorarsi nel corso di poche ore, ed accettare il sentimento che più liberatorio non può essere.
L’ora di religione è alla fine film prezioso, coraggioso, ma non declamatorio e facilmente assimilabile: non ci dice cosa dobbiamo pensare, come molti film avrebbero fatto, ma ci dice semplicemente come la pensa, adoperando mirabilmente la seduzione del cinema ben fatto. Bellocchio, che negli ultimi film aveva dimostrato di aver ritrovato uno stile ed una capacità di messa in scena invidiabile per molti cineasti nostrani, torna a schiaffeggiare lo spettatore (e, speriamo, anche lo stesso cinema italiano) con l’onestà delle proprie convinzioni e la trasparenza del suo modo di esprimerle.

* Nota dell'autore
Il titolo di questo pezzo nella versione originale era: "I pugni contro Roma: Porca Madonna! Porco Dio!", e riportava fedelmente, dopo i due punti, una frase recitata da un attore all'interno del film di Bellocchio. La redazione, con suo grande rammarico, ha preferito pubblicare versione alternativa del titolo per evitare qualsiasi tipo di problema. Chi ha scritto questo l'articolo avrebbe preferito pubblicarlo con il titolo originario, per due motivi: il primo, più semplice e diretto, sarebbe stato una maggiore adesione allo spirito positivamente provocatorio della pellicola; in secondo luogo, crediamo che tutti i contenuti presenti nelle righe scritte qui sopra sarebbero stati maggiormente avvalorati e compresi attraverso l'esplicito riferimento alla frase da cui si è partiti per tentare di spiegare L'ora di religione. Se le eventuali responsabilità della pubblicazione fossero ricadute soltanto sul sottoscritto, non avrei avuto grosse remore a scegliere. Poiché invece avrebbe potuto andarci di mezzo la testata stessa, e di consequenza le stesse persone che mi hanno sempre sostenuto, ho preferito accettare un comprmesso che soddisfa tutti noi, e spero anche voi lettori. Tengo comunque a sottolineare un punto: il voler inserire una bestemmia nel titolo della recensione non aveva assolutamente come scopo quello di offendere o colpire qualcuno, tanto che la stessa frase non è stata inserita di proposito all'interno dell'articolo.