Spike Lee

L’afroamericano nel sistema
di Adriano Ercolani

 
 
Il lavoro e l’opera di Spike Lee senza dubbio rappresentano un momento innovativo nella storia della cinematografia americana, hollywoodiana in particolare: per la prima volta infatti un autore afroamericano riesce ad entrare come protagonista nel circuito mainstream, mantenendo una poetica personale e definita, un’estetica ben precisa e soprattutto il proprio discorso di denuncia civile. Spike Lee ha portato il problema dei neri in America dentro l’industria, un argomento che in passato era stato affrontato senza un costante impegno civile, in modo piuttosto retorico, e soprattutto da registi bianchi. Con Lee invece viene alla ribalta non solo l’iper-sfruttata (a livello cinematografico) povertà ed emarginazione dei quartieri “neri”, ma anche per la prima volta la nuova middle class afroamericana, con tutte le sue problematiche e contraddizioni.
Ma come è riuscito questo autore ad imporre non solo il proprio cinema, ma anche la sua più diretta matrice ideologica, la denuncia e la contestazione del sistema americano “bianco”?
Spike Lee ha capito perfettamente che per imporsi nei confronti di Hollywood l’unico modo era guadagnare: attraverso il successo commerciale ottenere il potere contrattuale necessario per poter fare il cinema voluto, ed inserire di conseguenza in esso il proprio discorso. Questo non è un discorso applicabile soltanto a Lee, ma alla maggior parte degli autori americani dell’ultimo ventennio; pochi però hanno costruito la propria carriera in modo così rigoroso, con la tenacia e la lucidità necessarie a portare avanti la propria politica: sotto questo punto di vista l’idea di sfruttamento del sistema hollywoodiano di Spike Lee non sembra molto distante da quella di Francis Coppola, colui che forse per primo ha rivoluzionato l’industria americana e ha iniziato a configurare il cinema hollywoodiano contemporaneo. Nel portare avanti questa sua intenzione “imprenditoriale”, Lee ha escogitato una politica ben precisa: innanzitutto ha messo in funzione una vera e propria strategia produttiva con la sua 40 Acres and a Mule, che controlla ogni settore dello sfruttamento della sua immagine e dei suoi prodotti; in secondo luogo ha sempre cercato di coinvolgere le sfere più alte della “società” afroamericana, chiedendo di volta in volta finanziamenti ai suoi maggiori esponenti; infine si è circondato di uno staff tecnico fedele e ben affiatato, in modo da garantirsi delle prestazioni standard comunque di alta qualità, a prescindere dal modo di produzione e dai tempi di lavorazione: il maggior esponente del suo cast è senza dubbio Ernest Dickerson, il suo vecchio compagno di college che è diventato il direttore della fotografia di quasi tutti i suoi film.

Ritmi e contrasti
Nel cercare sempre di ottenere il successo commerciale l’autore di She’s Gotta Have It (Lola Darling, 1985) ha mantenuto comunque alcune costanti della sua personale estetica, soprattutto per quanto riguarda la messa in scena: nel concepire la sceneggiatura dei suoi film, invece, non ha esitato a variare sia nella struttura di essa che nell’impostazione più o meno “classica” dello sviluppo della storia. Prendiamo in esame il primo, grande successo di Lee, il “caso” cinematografico che lo impone definitivamente, dopo il brillante esordio con il film sopra citato: Do the Right Thing (Fa’ la Cosa Giusta, 1989) rimane tutt’oggi il film che meglio caratterizza il modo di fare cinema del suo autore; la sceneggiatura è appositamente costruita senza un centro su cui imperniare la vicenda, ma con una serie di personaggi che interagiscono tra loro e regalano una sensazione di casualità agli accadimenti;
i dialoghi posseggono la forza sovversiva di un ritmo serrato, che non concede tregua allo spettatore sia nel messaggio che nei tempi con cui vengono “sparati”. Questa concertazione di vari personaggi con lo stesso peso all’interno del film è una variante nello script che Spike Lee userà anche in futuro, come ad esempio in Jungle Fever (id.,1991), Get on the Bus (Bus in Viaggio,1996) e in S.O.S.- Summer of Sam (S.O.S.- L’Estate di Sam,1999). In Fa’ la Cosa Giusta la molteplicità di discorsi e punti di vista serve per de-costruire la retorica del film “a tesi” e proporre invece varie opinioni, che regalano al tutto un maggiore realismo e sincerità di intenti. La regia del film poi risulta un campionario di svariate angolazioni, punti di vista, effetti stranianti; il regista usa il mezzo cinematografico al suo massimo possibile, aiutato anche dalla musica martellante dei Public Enemy e da un montaggio frenetico. Lee sceglie una fotografia che accentua molto i colori e li sgrana, fino a riempire l’immagine di un senso di calore che determina un vero e proprio tour de force visivo; anche nei suoi film meno innovativi dal punto di vista visivo, la regia e la fotografia non saranno comunque mai improntate verso un’idea di realismo della messa in scena. Una costante delle immagini di tutto il cinema di Spike Lee è ad esempio il forte contrasto tra i colori, soprattutto tra il bianco e il nero: questa peculiarità si esplicita fin dal primo Lola Darling, ma è presente in ogni opera dell’autore. In questo senso l’uso della lente anamorfizzante è diventato una costante presente in molte opere dell’autore, tanto che in Crooklyn (id.,1993) viene impiegata per un’intera sequenza, distorcendone l’immagine. L’estrema varietà e sfrontatezza con cui Lee usa il mezzo cinematografico, contravvenendo alle regole del “buon filmare” presenti nell’industria hollywoodiana, potrebbe far pensare ad un suo avvicinamento all’estetica dei grandi movimenti europei, come ad esempio la Nouvelle Vague francese: niente di più fuorviante.

Estetica e tecnica
Il background di Lee è tutto americano, e proviene dalla cultura visiva del videoclip musicale, soprattutto quello che si accompagna alla musica rap, che all’inizio degli anni ’80 esplode in America; si tratta di immagini forti, contrassegnate da un tipo di inquadratura distorta, veloce e “tagliente”, che serve da coerente supporto visivo al messaggio “forte” dei più radicali gruppi rap. “Conoscere la grammatica filmica è semplicemente sapere come si mette assieme un film, conoscere la tecnica per farlo”: con queste parole, contenute nella monografia di Fernanda Moneta (Spike Lee, il Castoro cinema, Milano 1998, pag.7.) sull’autore, egli specifica il suo essere regista; l’estetica e la sua riuscita nel film è dovuta alla tecnica, dunque: nulla di più lontano dalla concezione della Nouvelle Vague, che invece ha voluto “liberare” la tecnica dalla correttezza della rappresentazione. Dopo il successo di Fa’ la cosa giusta, che gli ha permesso di entrare da protagonista nel circuito mainstream, Spike Lee non si è sclerotizzato in una serie di film-copia di quest’ultimo, ma ha scelto la via della varietà sia estetica che di contenuti, sempre con un occhio alla ricerca di un pubblico più vasto; l’opera successiva, Mo’ Better Blues (id.,1990) ne è l’esempio calzante: senza rinunciare alla propria autorialità e ad alcuni “marchi” stilistici, costruisce un’opera dalla sceneggiatura e dall’andamento “classico”, cioè con un personaggio principale e una successione di eventi non apparentemente dettata dal caso. L’impianto visivo del film si fa’ meno frenetico, più suadente; se nell’altro film era il rap ossessivo a dettare le regole sonore della vicenda, adesso tocca al jazz, caldo ed erotico, farla da padrone. Mo’ Better Blues è un non-musical, nel senso che rovescia lo stereotipo della musica come fuga dalla propria condizione di infelicità e miseria, stereotipo proposto più volte dalle produzioni americane. Bleek Gilliam ama la sua tromba e tutto sottomette a lei, ma alla fine ne paga le sofferenze. Nel prologo poi Lee ci mostra il giovane bambino “costretto” ad imparare a suonare lo strumento, mentre i suoi compagni giocano nel parco: il jazz come sforzo, fatica, che solo in un secondo tempo si tramuta in amore; non a caso nell’epilogo Bleek lascerà andare suo figlio al parco… Negli ultimi anni i film dell’autore si sono fatti sempre più vari, sia nel modo di produzione che nelle scelte estetiche: il regista è passato dal dramma sociale di Jungle Fever (id.,1991) alla commedia di Girl 6 (id.,1995), dall’esplicita denuncia di Clockers (id.,1994) all’impegno di Bus in Viaggio. In tutte queste opere ha continuato a proporre il suo stile sempre originale, alternando sceneggiature lineari ad altre dallo sviluppo più complesso.

Malcolm X
Come abbiamo già scritto in precedenza, una delle caratteristiche principali di Spike Lee è quella di riuscire a coniugare il proprio discorso, sia esso politico, sociale o semplicemente estetico, con le esigenze dell’industria hollywoodiana, che richiede comunque un certo tipo di spettacolarità. Il film che rappresenta nel miglior modo il tentativo di coniugare queste due direzioni è senza dubbio Malcolm X (id.,1992), l’opera fino ad oggi più costosa dell’autore afroamericano. Nella cine-biografia del leader nero Lee sceglie di raccontare la vicenda personale dell’uomo più che il discorso del politico, ed opta per una rappresentazione divisa in tre parti: la giovinezza all’insegna dei piccoli furti e raggiri, la prigione che porta alla conversione, ed infine la vita da leader. La sceneggiatura del film dunque è distinta in tre blocchi compatti, ognuno dei quali potrebbe essere disgiunto dall’altro: nella prima parte ad esempio i dialoghi sono briosi, veloci, in un difficile equilibrio tra commedia e gangster-movie. Lee, nel trasporre in immagini i tre momenti della vicenda, adopera tre differenti stili di regia: il film inizia rifacendosi agli stilemi del musical classico di Minnelli, pieno di costumi sgargianti, balli sfrenati e musica. Il tono della fotografia è coloratissimo, e non poteva essere altrimenti. Nel blocco in cui viene raffigurato il protagonista che si converte in carcere invece la messa in scena diventa fredda, distaccata, e la luce si attenua fino a sfiorare il bianco e nero; nell’ultima sequnza, quella in cui Malcolm X assume il suo ruolo politico e di guida, spiegando finalmente la sua dottrina, il tono del film assume una certa naturalità, semplicità, tesa ad evidenziare la concretezza del leader: per ammissione dello stesso Lee e di Dickerson, sono stati scelti in prevalenza dei toni verdi e marroni, che comunicano appunto un senso di familiarità. Con Malcolm X Lee ha voluto dunque dirigere il suo colossal, e lo ha fatto usando proprio il modus hollywoodiano: la struttura narrativa è lineare, senza flashback o altri salti logico-temporali; la regia a tratti sembra più didattica che in altre opere; sicuramente la materia trattata ha influenzato il dispositivo della messa in scena. Purtroppo il successo commerciale del film non è arrivato.

Lee hollywoodiano?
Successo che invece ha di nuovo arriso all’autore nel 1998, con He Got Game (id.,1998), film che mescola la tematica principale di tutta l’opera di Lee, le relazioni inter-personali (in questo caso il rapporto padre-figlio), con la grande passione del regista, il basket. La stampa statunitense ha parlato di primo film “hollywoodiano” del regista, ed in apparenza potrebbe sembrare così; la sceneggiatura segue la vicenda in maniera abbastanza lineare, con l’inserzione di pochi flashback e senza particolari forzature a livello di ritmo o di dialoghi. La regia sicuramente sceglie una fluidità più “narrativa” del solito, relegando il solito “Lee-touch” ad alcuni momenti di fotografia sgranata, con luci violente e surreali. Il finale poi, anche nella sua presunta negatività, è invece positivo, consolatorio, e lascia aperta la strada della speranza nella riappacificazione tra padre e figlio. He Got Game è forse il film più “classico” di Lee nella forma, ma nel contenuto resta a nostro avviso una delle sue opere più “arrabbiate” e meno disposte la compromesso. La differenza con il passato è che il messaggio e l’eversività in esso contenuta questa volta sono stati nascosti da un’apparente calma narrativa, dovuta soprattutto all’ormai indiscussa capacità tecnica del regista. La rabbia, il discorso sull’incapacita all’integrazione, lo sfruttamento della gente afroamericana, sono discorsi che vengono celati ma che serpeggiano per tutta l’opera; non si tratta dunque di un Lee riconciliato con l’industria e con la società americana, ma di un autore che si è servito dell’estetica più tradizionale per far arrivare il suo messaggio più in profondità. Molto più “classico”, in un certo senso, ci è sembrato S.O.S.- L’Estate di Sam, film che la critica ha lodato per il ritorno dell’autore ad un’impostazione visiva più ardita e fiammeggiante, oltre che per la sceneggiatura che di nuovo segue più personaggi senza un centro vero e proprio. Senza dubbio le immagini create dall’autore sono magnifiche, incandescenti, e la storia funziona a meraviglia; la maggiore “classicità” del film a nostro avviso sta nel fatto che Lee per quest’opera si rifà piuttosto evidentemente ad un “maestro” che negli anni ’90 è ormai il punto di riferimento quasi imprescindibile per molti cineasti: Martin Scorsese. Il film del regista afroamericano, ambientato nel 1977, in molti punti ricorda molto da vicino GoodFellas (Quei Bravi Ragazzi,1990); questo accade non solo per quanto riguarda la regia virtuosistica e vertiginosa, ma soprattutto per la struttura narrativa: come il suo predecessore, L’Estate di Sam si sofferma ad indagare con scrupolo quasi antropologico gli usi e costumi di un ben determinato gruppo sociale, e poco importa se nell’opera di Scorsese era la mafia e qui sono i giovani ragazzi di quartiere (non lontani comunque dal potere mafioso, impersonato da Ben Gazzara): l’occhio indagatore sembra davvero lo stesso. In più Lee costruisce l’ultima sequenza del film esattamente come aveva fatto Scorsese: segue meticolosamente le azioni dei protagonisti nella giornata finale in cui si sciolgono tutti i nodi della vicenda. Il climax che si viene a creare, in un salendo di tensione, sfocia poi nella violenza gratuita contro il “diverso”, il ragazzo punk scambiato per il serial killer, come in Quei Bravi Ragazzi sfociava nell’arresto di Henry Hill. Spike Lee è forse il primo regista afroamericano che è riuscito ad imporsi all’industria hollywoodiana sfruttando appieno il proprio discorso di denuncia, e soprattutto il proprio stile personale: uno stile che ha privilegiato un tipo di regia sempre riconoscibile, rivelatosi come una sorta di “marchio di fabbrica”, e perciò applicabile a sceneggiature più o meno lineari o intersecate. Spike Lee si presenta dunque come un autore unico nel panorama hollywoodiano, e non soltanto per il suo essere un afroamericano: la sua unicità è dovuta al fatto di saper sempre creare, da qualsiasi tipo di storia, uno Spike Lee Joint.

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