Nuovo cinema tedesco

Kluge Fassbinder Herzog Wenders
di Linda Vianello


Nuovo cinema tedesco
 
Alexander Kluge
"Il film prende forma nella testa dello spettatore, non è un’opera d’arte che vive autonomamente sullo schermo ": in questa dichiarazione del 1966 è contenuto il fulcro del cinema a collage di Kluge, un assunto al quale il regista si mantiene sempre fedele fin dal suo debutto con La ragazza senza storia. Anche Kluge, come Godard o Straub, fa tesoro degli insegnamenti di Brecht ed è per questo motivo che nella sua opera ha un’importanza fondamentale il momento di interruzione della finzione, la pausa di riflessione che si ottiene con cartelli o didascalie, il commento fuori campo, l’incontro-scontro di materiali eterogenei, gli inserti documentari e la musica montata in modo straniante e soprattutto l’arma dell’ironia.
Da qui l’idea che il film non si costruisca tanto sul set, quanto alla moviola.
Il suo progetto è quello di recuperare le attività non logiche (libere associazioni, pathos) dello spettatore per rifunzionalizzarle ad un discorso critico in un progetto “illuminista”.
Le sue ossessioni, che emergono a più riprese nei suoi film, sono il mondo dello spettacolo, l’Opera italiana, la battaglia di Stalingrado e l’amore per il cinema muto.
La sua opera La ragazza senza storia è tratta da un racconto della sua prima raccolta Biografie del 1962 ed è la storia di una ragazza, Anita G., di origine ebrea emigrata dall’Est nella Repubblica federale, ma in realtà vuole essere lo specchio della società tedesca degli anni ’60. Rispetto a quest’opera aperta e libera, quella successiva, Artisti sotto la tenda del circo: perplessi, tradisce nella preponderanza del commento off tutto il peso del progetto letterario che ha alle spalle, cioè illustrare, attraverso le vicissitudini della trapezista protagonista, le due possibili strade che si aprono all’intellettuale degli anni ’60 in Germania di fronte al sistema capitalistico: il riformismo o la rivoluzione.
Con Occupazioni occasionali di una schiava (1973), Kluge torna al tema dell’emancipazione femminile, mentre con Ferdinando il duro (1975-76) crea una simpatica commedia ricuperando il personaggio brechtiano dell’eroe bastonato e il tema del parossismo del potere.
Nel biennio 1977-78, l’inasprirsi della situazione politica in seguito agli atti terroristici della Rote Armee Fraktion, vede Kluge alla testa del movimento dei cineasti contro possibili violazioni dei diritti costituzionali da parte dello stato.
Una risposta viene dal film ad episodi Germania in autunno (realizzato con Fassbinder, Reitz e molti altri) al quale seguono, sempre seguendo la formula di un cinema collettivo a collage, un documentario sulla campagna presidenziale di Strass ed uno sui pericoli della guerra nucleare.
Da queste ed altre esperienze nasce La forza dei sentimenti (1983), una delle opere più significative di Kluge, nella quale il centro del metodo a collage si sposta dal filo rosso di una storia ad un sistema organico di storie moltiplicate entro un orizzonte cronachistico che fotografa l’umanità alle soglie del 2000.
Tale intento anima anche i successivi, ma meno significativi film di Kluge; poi, dalla metà degli anni ottanta, interrompe la sua attività per il grande schermo, per dedicarsi alla costruzione di una televisione d’autore tramite la quale continuare la sua battaglia politica e sociale.

Rainer Werner Fassbinder
Quando nel 1982 Rainer Werner Fassbinder muore tragicamente a Monaco per un'overdose di droga ed alcool all’età di soli 37 anni, la usa opera è già di notevoli proporzioni. Ha realizzato 39 lungometraggi (tra i quali un serial televisivo in 5 puntate e il mastodontico sceneggiato Berlin Alexanderplatz), 38 regie teatrali e 4 sceneggiature per film altrui, comparendo inoltre come attore in 19 film di colleghi. Nelle sue numerose realizzazioni, la cui qualità non scende mai sotto un buon livello, spazia in argomenti e temi diversi, pur avendo trovato nella riformulazione del melodramma famigliare il punto centrale della sua produzione.
Questo bilancio di forsennata attività si spiega, in parte, con il forte legame tra teatro e cinema nel suo lavoro. Nel '68 Fassbinder fonda a Monaco il gruppo d’avanguardia Antitheater; dopo poco costituisce una squadra di tecnici ed attori, tra i quali la moglie Ingrid Caven, che gli permette di ridurre al minimo i tempi di lavorazione e le cui realizzazioni si basano su una scrittura filmica di stampo godardiano, ma sempre modellata su quella del teatro. Un esempio della sua velocità di realizzazione è il film Le lacrime amare di Petra von Kant (1972) che, basato su un testo teatrale, viene girato in soli dieci giorni. Ma anche negli ultimi anni, quando ormai abbandona le produzioni low- budget per dedicarsi ad un cinema da esportazione, il suo ritmo di lavoro è frenetico: dopo il 1980 ricava, dal romanzo di Doblin, Berlin Alexanderplatz (più di 15 ore di durata), l’hollywoodiano Lili Marleen, Lola, Veronica Voss (nell’81 Primo Premio al Festival di Berlino) e Querelle, che fa scandalo alla Mostra del Cinema di Venezia.
Tutte le sue opere esprimono una prepotenza narrativa e produttiva insieme, che, se certo è il segno della sua passionalità, dimostra ancor di più un narcisismo che era insieme nevrosi e progetto.
La vera importanza di questo prolifico regista, comunque, non è tanto nella mole della sua opera, quanto piuttosto nella spinta propulsiva che essa ha saputo dare alla cinematografia federale del suo tempo. Cinematografia della quale lui può essere considerato il “cuore”, perché fa un costante appello alla fisicità delle passioni ed alla forza della vita, in una nazione in cui parlare di melodramma in questi anni ha quasi un significato esoterico. Fassbinder è classico e moderno insieme: classico, perché si serve di un linguaggio tradizionale, denso, assertivo, anche se sorvegliato da una certa sobrietà, e tramite esso racconta situazioni e storie che possono, appunto, essere definite melodrammatiche, vicino alla lezione di certo cinema americano degli anni ’40 e ’50 (Ophuls e specialmente Douglas Sirk). Moderno perché questo recupero è segnato dalla presenza dell’autore e permeato dalla coscienza tragica della società capitalista, divisa in classi e dominata dai rapporti di produzione, dalla legge del profitto e dell’espansione economica.
Questa inclinazione al melodramma è anche favorita dalla scelta di una struttura narrativa forte, basata sull’immediata riconoscibilità dei personaggi e delle situazioni, che mira a favorire una lettura attenta da parte del pubblico, partecipe, ma distaccata allo stesso tempo, che permetta di spostare le problematiche dello sfruttamento e dell’oppressione dal piano sociale a quello privato. Con questo intento racconta il dominio del bianco sul nero e sull’immigrato (Il terrore, 1969, uno dei più rigorosi esempi con i suoi quadri fissi e le sue ellissi dell’Antitheater dell’inizio, e La paura mangia l’anima, 1973), dell’uomo sulla donna, del regolare sul diverso, del bello sul brutto ed anche quello stesso che, nel chiuso gioco di rapporti interpersonali profondi, divide anche tra diversi ed emarginati chi ha più da chi ha meno, chi è più forte da chi è più debole (come in Il diritto del più forte, 1974, film lucidamente estraneo da ogni utopia omosessuale ed al di sopra delle divisioni sociali). Un altro rapporto che interessa Fassbinder, oltre a quello mélo/storia, è quello arte/vita, sul quale riflette in un film sul proprio mestiere dal titolo Attenzione alla puttana santa (1970).
La nevrotica oscillazione tra mélo e impegno politico, tra professionismo e sregolatezza, tra esibizionismo e riflessione critica, fa della sua opera un esempio di cinema “a tesi”, che non vuole però spiegare o insegnare, ma solo descrivere. Descrivere non tanto le ragioni profonde di un atteggiamento, quanto i piccoli sintomi del sorgere di una malattia dell’anima e delle vertigini che affiorano e scompigliano i sentimenti dell’uomo. Lo strumento del mélo gli consente una ricostruzione, tra l’archeologia e la memoria, tra il passato e il presente, della storia e della società tedesca moderna, che egli vuole ripercorrere nelle sue tappe salienti, dall’età di Bismark agli anni venti, dal nazismo alla contemporaneità, quasi spiandola da un buco della serratura ed osservandone gli effetti che produce all’interno dello scambio amore/morte.
L’ultima fase della sua produzione abbandona le realizzazioni a basso costo e si conclude con una pellicola realizzata negli studi del CCC-Film di Berlino - quegli stessi che hanno visto la fine della carriera di Fritz Lang. Qui il filmmaker bavarese si libera per l’ultima e definitiva volta di ogni fantasma, realizzando Querelle de Brest (1982, da un testo di Jean Genet), che rappresenta l’estrema sintesi, purificata da ogni scoria realista, di tutte le sue ossessioni, e il tripudio dell'estetica produttiva da studio-system che ormai teorizzava apertamente.
Il merito principale di Fassbinder è stato quello di tentare di far uscire il cinema tedesco dalla sua condizione elitaria e di farlo giungere, soprattutto nell’ultima fase del suo lavoro, all’immediatezza mitica degli americani con strumenti, però tutti europei. Anche se, paradossalmente, Fassbinder rimane un regista per pochi, non tanto adatto alla grande distribuzione quanto ai festival e alle sale d’essai.

Werner Herzog
Werner Herzog, a differenza di Fassbinder e Kluge, che possono essere considerati registi piuttosto stanziali, è, assieme a Wim Wenders, un grande viaggiatore, se vogliamo un apolide.
Nella sua opera, all’interno della quale è praticamente impossibile individuare precise influenze o derivazioni, le connessioni con la storia e l’attualità sembrano piuttosto casuali. Fiction e documentario si intrecciano inscindibilmente, in un disperato tentativo di sottrarsi al realismo quotidiano della moderna civiltà industriale. I suoi eroi, anche se dimessi e tranquilli, rientrano tutti in un’unica categoria, quella della diversità rispetto all’uomo medio borghese: sono reietti, trovatelli, aborigeni, nani, muti, avventurieri, quasi sempre osservati con affetto e simpatia, a dimostrare quanto sia radicata nella mentalità europea l’identificazione con i personaggi “perdenti”. Per ritrovare e svelare l’incontaminata purezza umana, macchiata dalla mediocrità della società borghese, Herzog comincia a produrre i suoi film in disparati luoghi del mondo.
In Grecia gira l’opera prima, Segni di vita (1967), misterioso e violento rifiuto della società nazista da parte di un soldato convalescente nell’isola di Cos. La storia della progressiva ribellione del protagonista viene presentata come una parabola sull’isolamento dei gruppi, senza alcuna attenzione ai dettagli realistici o all’ambientazione storica.
In Messico e nelle Canarie gira nel 1970 Anche i nani hanno cominciato da piccoli, allucinante e sovversivo racconto di una rivolta di nani in una colonia di rieducazione che, sebbene possa ricordare il tema di una sessantottesca protesta antiautoritaria, mira invece a far mimare ai suoi lillipuziani protagonisti le convenzioni della quotidiana vita borghese producendo un effetto grottesco e surreale.
Centrale nella produzione di questo periodo è il documentario Il paese del silenzio e dell’oscurità, girato tra il 1970 ed ’71, che da uno studio dell’emarginazione dei sordo-ciechi ci offre un affresco delle problematiche della comunicazione umana.
Fata Morgana (1971) viene realizzato nel Sahara ed è un documentario fantastico ed utopico sulla bellezza dell’Africa devastata dallo sfruttamento della civiltà industriale.
Il Perù vede nascere Aguirre, furore di Dio (1972) nel quale, da un episodio marginale della conquista spagnola del Perù, Herzog costruisce un poema di potere, follia e morte come un apologo sulla cupidigia dell’oro e della gloria. Qui scopre anche il “suo attore”, Klaus Kinski, che diventerà elemento quasi imprescindibile del cinema herzogiano e un'icona cinematografica e teatrale di paradossale e folle lucidità.
Con questo film, Herzog ottiene anche il primo successo di pubblico internazionale, successo che gli viene confermato dall’assegnazione del premio speciale della giuria al Festival di Cannes nel 1975 per L’enigma di Kaspar Hauser, che si ispira ad un celebre caso di un trovatello “nato adulto”, attraverso il quale il regista sferra una feroce critica alla società, che non comprende l’animo del ragazzo come dei disadattati in genere, ed è capace solo di violentarli. Il film deve la sua fortuna ad una accurata messa in scena, ma anche alla bravura dell’attore protagonista, il non professionista Bruno S.
Il film dell’anno successivo, Cuore di vetro (1976), è invece poco compreso da critica e pubblico ed è la sua opera più estrema, nella quale, tramite l’ipnosi cui sottopone gli attori sul set, spinge agli estremi l’elemento magico del suo cinema per creare una cupa leggenda di follia collettiva, ambientata nelle montagne della Baviera e recitata in dialetto locale stretto.
Nel Winsconsin gira La ballata di Stroszek (1977), che ritrova in America, più allucinanti che mai, forme e simboli di quella violenza da incubo industriale che faceva del protagonista de L’enigma di Kaspar Hauser un emarginato. Forse il film più realistico di Herzog, vede per la seconda volta protagonista Bruno S., ma non aggiunge particolari elementi di novità al cinema del regista.
Nel 1978 gira il remake del classico di Murnau, Nosferatu, il principe della notte, ed il risultato -per forza delle atmosfere evocate e intensità della recitazione - non sfigura con l’originale, a parte per qualche eccesso recitativo di Kinski nella parte del vampiro-filosofo.
Del ’78-’79 è Woyzeck, tratto fedelmente dal testo di Buchner, con il quale Kinski realizza una delle prove più mature e impressionanti della sua carriera.
Dopo questo tour de force, il cinema di Herzog si attesta su territori già noti, fino al silenzio del periodo successivo.
Nelle foreste dell’Amazzonia il regista gira Fitzcarraldo (1982), che, interrotto più volte per difficoltà di lavorazione, rappresenta un proseguimento più ordinato di Aguirre, dove però mancano gli illuminati tocchi mostrati in passato. In Australia realizza l’ecologico Dove sognano le formiche verdi (1984), che continua il discorso aperto con Fata Morgana. Nel 1987 sono suoi protagonisti ancora l’Africa e Kinski in Cobra verde, più interessante come documento che come film; ancor più deludente è Grido di pietra (1991); Invincible (2001), con l'attore inglese Tim Roth, viene presentato al festival di Venezia, suscitando di nuovo più dubbi che plausi.
Non è chiaro quali siano le cause dell’abbandono della fiction da parte di Herzog, ma si può supporre che la cosa sia in parte dovuta alla difficoltà di proporre “immagini non viste” (come quelle che aveva mostrato in seguito ai suoi numerosi viaggi) a causa del dilagare della televisione, e in parte alla morte del suo più prezioso collaboratore Klaus Kinski. Dal 1991 Herzog preferisce alternare la sua attività di regista teatrale operistico alla realizzazione di documentari, tra i quali Apocalisse nel deserto, ispirato alla guerra del Golfo, ed il bellissimo film di montaggio, presentato a Cannes nel 1999, Kinski, il mio nemico più caro, in cui ricostruisce, basandosi su materiali inediti, il suo tormentato rapporto con l’attore.

Wim Wenders
Gli esordi del cinema di Wim Wenders sono legati al cinema underground di fine anni ’60 ed al grande amore per la musica rock, e più in generale per la cultura americana.
Il rapporto tra immagine e musica è centrale nella sua prima produzione, nella quale già si affaccia una forma di terrore del taglio, dello "stuprare" al momento del montaggio la bellezza primigenia di un’inquadratura.
Le tappe della scoperta del suo sguardo “fenomenologico” possono esser individuate nei suoi tre primi cortometraggi: Silver in the City (1968-69), che guarda in modo oggettivo la città, con campi lunghi che durano quanto la lunghezza del caricatore della sua 16 mm; Same Player Shoots Again, un thriller del 1967; Alabama: 2000 Light Years, del 1968- 69, che è un già compiuto road-movie.
Nel 1969 avviene il primo incontro con l’opera dello scrittore Peter Handke, in occasione della realizzazione del corto Drei Amerikanische LP’s.
Questo apprendistato si condensa nel suo film di diploma alla Scuola di Cinema di Monaco, Summer in the City del 1970, che viene definito dallo stesso autore un documentario sulle idee della gente alla fine degli anni ’60. Già da qui si palesa l’estetica di Wenders, fatta di vuoti, desideri inespressi e parole non dette, che porterà ad una posizione centrale nel suo cinema il non-detto ed il non-mostrato, per dare vita ad una narrazione svincolata dagli obblighi dell’intreccio e fatta più di evidenze che di dimostrazioni.
Con il denaro del Filmverlag der Autoren -del quale è socio fondatore -, e della TV austriaca Wenders gira il suo primo film professionale, tratto dall’omonimo volume di Peter Handke, La paura del portiere prima del calcio di rigore (1973), dove si libera del precedente sperimentalismo underground esibendo tutta la sua cinefilia. L’incontro con Handke è particolarmente significativo per la comunione di gusti, ipotesi ed attenzione alla quotidianità esistente tra i due autori. Il romanzo si presta dunque come base ideale per riformulare i temi della fuga e del disagio esistenziale nell’universo della parola e dei segni. Il film potrebbe essere un giallo, ma non lo è per la mancanza delle classiche componenti spettacolari del genere, rese impossibili dall’assurdità della fuga del protagonista a causa di un delitto altrettanto assurdo.
Dopo l’infelice coproduzione spagnola, realizzata tra il ’72 ed il ’73 per La lettera scarlatta, Wenders torna ad una storia propria, girata nel tanto amato bianco e nero: Alice nelle città, il primo capitolo della cosiddetta “trilogia della strada”. Il film narra il viaggio, tra l’America e l’Europa, di un giornalista che vorrebbe scrivere una storia, ma non ci riesce e scatta solo foto con una Polaroid, accompagnato da una bambina impertinente. Tutto il fascino del film è proprio nel felice modo in cui viene narrato il rapporto tra questi due diversi personaggi che, insieme, si muovono verso un happy-end nel quale il viaggiare si dimostra essere l’unico modo di imparare dei personaggi.
Sempre sulla crescita della persona, Wenders realizza Falso movimento (1974-75), da una sceneggiatura di Handke ispirata a Gli anni di apprendistato di Goethe, film attraverso il quale esplicita il suo debito con il romanzo di formazione tedesco.
L’opera risulta nel complesso un po’ fredda e teorica, ma Wenders si riprende subito, nel 1975 stesso, con la realizzazione di Nel corso del tempo, nel quale al tema del viaggio si aggiunge quello dell’amicizia e quello “metacinematografico” del destino del medium Cinema (ripreso poi numerose volte in documentari come Chambre 666, 1982, o nel bel taccuino di viaggio Tokyo-Ga, 1985). Il film affronta, attraverso il viaggio dei protagonisti al confine delle due germanie, una crisi esistenziale unita all’incapacità di comunicazione della parola, mescolandola al tema della colonizzazione dell’inconscio da parte della cultura americana.
Nel 1976-77 realizza L’amico americano, nel quale si confronta con gli schemi del giallo internazionale, ma ne stravolge le regole inserendo lunghe pause di meditazione, attori “intellettuali”, quali Bruno Ganz e Dennis Hopper, ed un accurato studio d’atmosfera.
Il successo di questo film fa sì che Wenders venga chiamato negli Studios della Zoetrope di Francis Ford Coppola per realizzare un altro giallo, che ha un lunghissimo periodo di lavorazione. Hammett, Indagine a Chinatown (1979-82) è un noir un po’anonimo dal punto di vista della tradizione del genere e, contemporaneamente, fin troppo intellettuale in numerose soluzioni estetiche. E' evidente il condizionamento imposto dalla grossa produzione (Coppola toglie a Wenders il controllo sull'opera e arriva a girare personalmente intere sequenze del film) ed il contrasto troppo forte tra due modi radicalmente diversi di pensare e fare cinema.
Nel 1980, durante una delle forzate pause di lavorazione di questo film, realizza Nick’s Movie, cofirmato da Nicholas Ray, che diventa un documentario degli ultimi giorni di agonia del regista. Molto vicino nel progetto ai temi dello snuff-movie, è una delle più discusse opere di Wenders, che per la prima volta filma la morte per realizzare una cruda e complessa riflessione sul rapporto arte-vita. Il film è un articolato collage di scene di fiction girate in 35mm e scene in video - che rappresentano lo scorrere della vita reale ed il “cancro” del cinema - e scene tratte dai film di Ray, che simboleggiano la memoria del medium.
Negli anni ’80 Wenders diventa un regista cult, rischiando però di far scivolare nella maniera la sua riflessione metalinguistica ed il suo stile. Nel 1981, con l’autobiografico Lo stato delle cose (Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia) Wenders rielabora l’irriducibile contrapposizione tra modo di produzione europeo ed americano, con un finale - il colloquio tra regista e produttore - da antologia del Wenders-pensiero, in cui si scontrano fantasie cinefile e realizzative con la realtà dell'industria.
L’ultimo film “americano” del periodo è il più debole Paris, Texas del 1984, dopo il quale decide di tornare in Europa per girare, nel 1987, Il cielo sopra Berlino, un’affascinante viaggio nella capitale tedesca ancora divisa. Si tratta di una delle migliori opere di Wenders, coadiuvato ancora una volta dall’amico Peter Handke, dopo la quale la sua carriera sembra destinata al ribasso, oltre che al nomadismo.
Sia Fino alla fine del mondo (1991), che Così lontano, così vicino (1993), fanno rimpiangere le sue opere precedenti, mentre l'oltransistica sperimentazione video del regista appare fine a se stessa. Sembra che Wenders senta il bisogno di sondare nuovi orizzonti: alterna piccoli film metalinguistici, alla Lisbon Story (1995), a produzioni indipendenti negli Stati Uniti, dove si è di nuovo trasferito da qualche anno, come Crimini invisibili (the End of violence, 1997, una specie di film "parallelo" allo Strade perdute di David Lynch - ha lo stesso protagonista, Bill Pullman, e alcune suggestioni simili, ma un taglio decisamente opposto) e il pretenzioso ma affascinante the Million Dollar Hotel (2000).
Il più recente successo di critica e di pubblico di Wenders è Buena Vista Social Club (1999), superba carrellata sulla musica cubana, nella quale mostra ancora una volta le sue ottime qualità di regista e rilancia - soprattutto in Europa - alcuni aspetti della cultura sudamericana facendo degli anziani musicisti ritratti nel documentario un vasto fenomeno di costume.