Strade violente

Al principio della visione
di Adriano Ercolani

 
  Thief, Usa, 1981
di Michael Mann, con James Caan, Tuesday Weld, Robert Prosky, Dennis Farina

Abbiamo più volte definito Michael Mann come il più significativo “narratore per immagini” del cinema americano odierno. Il lavoro compiuto sulla e dentro l’inquadratura in ogni opera del regista è senza dubbio la maggiore espressione di lucidità e coerenza estetica prodotta dagli ultimi venti anni di cinematografia hollywoodiana. Visto oggi, dopo aver ammirato l’evoluzione e la filmografia di Mann, il suo esordio alla regia cinematografica targato 1981 si presenta come un piccolo ma prezioso gioiello allo stato grezzo, contenete in sé già tutte le caratteristiche visive principali di un cinema che si svilupperà in seguito folgorante ed imprescindibile. Prima di tutto, Strade violente è un lungometraggio pienamente in sintonia con il resto delle sue opere per quanto riguarda la tematica portante: la solitudine esistenziale del protagonista Frank, diviso tra il rischio del suo lavoro e la difesa delle persone che ama (o che vorrebbe amare), richiama direttamente alcuni personaggi che sono di diritto entrati nell’immaginario cinematografico contemporaneo. Primi tra tutti, il criminale Neil McAuley ed il suo alter-ego/nemesi agente Vincent Hannah, straordinari e tragici eroi di Heat; di seguito, si avvicinano a questa tipologia di figura in chiaroscuro anche il killer solitario di Collateral, il combattuto Will Graham di Manhunter, ed in fondo anche il Mohammed Alì interpretato da Will Smith. Il peso e la responsabilità delle proprie scelte di vita, l’impossibilità di stabilire rapporti duraturi, l’appartenenza legittima e virile ad una famiglia che condivide con il protagonista lo stesso progetto di vita: da Heat a Insider, da L’ultimo dei Mohicani ad Alì, Mann ha sempre visto nel gruppo e nella sua predisposizione all’autodifesa il fulcro sociologico principale, predominante nel suo cinema; anche in Strade violente appunto i problemi di Frank si materializzano proprio nel momento in cui decide di “allargare” il suo microcosmo, sia in senso positivo che negativo: l’affiliazione ad un gruppo criminale più potente e pericoloso, e la consapevole accettazione del proprio sentimento amoroso per Jessie, sono le scelte inevitabili che danno inizio e portano a compimento il plot della pellicola.
Anche dal puro punto di vista estetico, Strade violente contiene molti degli stilemi che si sono poi pienamente sviluppati nelle opere successive dell’autore; già evidente ad esempio la sperimentazione visiva sull’inquadratura come portatrice essa stessa di significazione, in quanto cellula primaria e necessaria per sviluppare la storia: nei campo/controcampo delle scene di dialogo - straordinaria quella notturna al caffè tra Caan e la Weld - il film riesce pienamente a sintetizzare il discorso cinematografico di Michael Mann, capace come pochi altri di riempire l’immagine dello steso senso espresso dalle parole degli attori in scena. Nelle scene di raccordo poi l’autore immerge le figure in una città sfavillante di neon ma già distante, straniante nel suo splendore: la metropoli di Strade violente è già la splendida e silenziosa “città degli angeli caduti” di Heat, che troverà poi la sua massima espressione estetica nel raggelante digitale di Collateral.
Anche nei momenti d’azione – non dimentichiamoci mai che Mann sperimenta e scrive il suo cinema all’interno di un genere che egli stesso ormai ha definitivamente contribuito a far diventare “alto” - Strade violente contiene già il discorso sul ritmo che il regista espliciterà in seguito, a partire da Manhunter: se paragoniamo le scene finali dei due film, esse si ripresentano come esattamente speculari. La risoluzione arriva quasi inaspettata, preceduta da un accumulo di tensione dovuta all’estrema stilizzazione della messa in scena: la sottrazione dovuta all’assenza di musica, all’impoverimento della matrice sonora, ad inquadrature non sofisticate, esplode improvvisamente nella violenza della resa dei conti - di Frank ed i suoi padroni/criminali, come nel caso di Graham e Dolarhyde/Dente di fata. E proprio al culmine della storia, Mann compie un processo cinematografico senza eguali: rallenta il ritmo quasi alla stasi, speso attraverso il rallenti; così facendo, grazie anche all’aiuto di una colonna sonora sempre densissima, il cineasta carica tali scene di un’energia visiva e sensoriale inusitata. L’azione si raggela, i personaggi si muovono quasi come automi, volti a creare però un senso di ineluttabilità difficilmente rintracciabile nel cinema d’azione di altri registi, anche dei migliori. Mann afferma in piena coerenza la sua idea di spettacolarità, che si concentra molto più sulla cadenza che sulla vorticosità del ritmo. Il controllo del mezzo/cinema (inteso soprattutto come immagine e movimento di immagini) che questo cineasta ha dimostrato fin appunto da Strade violente, suo abbagliante esordio per il grande schermo, è probabilmente la maggiore affermazione di autorialità che il cinema americano ha prodotto negli ultimi venticinque anni.