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Ali
id., Usa, 2001
di Michael Mann, con Will Smith, Jamie Foxx, John Voight, Mario Van Peebles

Doppia visione
recensione di Adriano Ercolani e Luca Persiani


Il trailer americano



Mann vs. Clay
di Adriano Ercolani

La vera, grande sfida che il film ci propone è quella tra Michael Mann e Muhammad Alì. L’autore di Insider, da sempre abituato a proporci grande cinema puntando sulla significazione dell’immagine, e perciò sulla sottrazione del senso esplicito di fatti e parole, si è trovato a dover affrontare uno dei personaggi più carichi di significato dell’immaginario collettivo degli ultimi anni. Strabordante di retorica, di ideologia, di messaggi sociali e politici, Cassius Clay probabilmente mal si è prestato ad un autore che ha fatto del silenzio, del raccontato attraverso la visione, la sua costante poetica - pensate al Robert De Niro di Heat, al William Petersen di Manhunter, al Russell Crowe di Insider. Non sottovalutiamo poi l’assenza di Dante Spinotti alla fotografia, sostituito dal pur bravo Emmanuel Lubeski, che però riesce a riprodurre soltanto in parte la specificità e l’elegante stilizzazione sull’inquadratura che il consumato binomio Mann-Spinotti era riuscito a perfezionare nel corso degli anni e delle collaborazioni. Alì si presenta dunque come un film non completamente riuscito, piuttosto sbilanciato a livello narrativo a causa delle difficoltà del regista a padroneggiare la materia trattata ed adattarla al proprio stile. Anche dal punto di vista puramente cinematografico, il film perde il confronto con le opere precedenti del cineasta, visivamente ineccepibili. Detto dunque che Alì non è perfetto, precisiamo però che rimane un film poderoso, intrigante ed a tratti trascinante. I primi venti minuti, clamoroso accordo di montaggio, musica e grande resa visiva, danno letteralmente i brividi; nella messa in scena degli incontri di pugilato poi Mann riesce a rendere il meglio di sé, costruendo gli eventi sportivi con il suo solito rigore improntato al realismo, che però è capace di trascendere la sua stessa estetica e trasformare il fatto in evento "altro", un po’ come i grandi costruttori di mito. Ed in questo perciò il personaggio di Alì si adatta alla perfezione, con tutte le sue contraddizioni. Personaggio difficilmente catalogabile, incoerente e non conciliato nella vita comune, guerriero ed eroe leggendario sul ring: questo ci racconta in fin dei conti il film, che sbanda forse troppo nella parte di biografia vera e propria, ma sa trovare fino in fondo la dimensione mitica di Cassius Clay, che risiede appunto in mezzo al quadrato di un ring.


La narrazione ibrida
di Luca Persiani

In un periodo in cui il cinema mainstream recepisce i dettami della nuova sperimentazione narrativa che negli ultimi anni è esplosa nell'area più o meno indipendente, Michael Mann si espone ancora col suo cinema ecumenico e denso. A beautiful mind è la definitiva, accorata integrazione della necessità del racconto ingannevole di mondi e realtà diverse nel grande cinema popolare americano. E' un modo di raccontare fatto di continue svolte e colpi di scena, spesso costruiti sul fascino affabulatorio di scrittura e qualità comunicative di attori-star. Arriva a sintesi di una stagione di sguardi indipendenti "falsi" e "instabili", che hanno sempre più prepotentemente incalzato pubblico e produzione. Da Matrix ad Existenz, da Memento a Mullholland Drive, il cinema si sta dichiarando sempre più definitivamente dickiano, e ha scoperto un pubblico che molti (in primis i produttori) temevano spaventarsi di fronte all'estrema complicazione dei piani temporali, allo svelarsi di più realtà tutte ugualmente lecite, al moltiplicarsi quasi schizofrenico dei punti di vista. Fra sperimentazioni più o meno riuscite e nuove tensioni narrative, Michael Mann non ha paura di muovere il suo cinema nella stessa direzione di sempre: quella del racconto lineare. Alì è un finto film biografico, è un pretesto astuto per poter usare la mdp come fosse lo strumento di un documentario, componendo un affresco vibrante e mosso dei dieci anni della densissima vita di uno sportivo che ha assurto al rango di mito. Il vero documentario Quando eravamo re (When we were king, di Leon Gast, 1996) esplorava con la forza di un melodramma tutta la vita di Cassius Clay - Muhammed Alì, dimostrando l'enormità di spunti espressivi nell'arco narrativo della vita del campione. Il falso documentario Alì stempera, paradossalmente, la densità del melodramma, ne fa quasi un musical pugilistico delle dimensioni e ritmi dei racconti classici hollywoodiani (Hawks, Anthony Mann, Ford). Ma lo fa con i mezzi quasi giornalistici della camera a mano usata strenuamente, delle parentesi video dal sapore quasi televisivo, delle sporcature di fotografia (sovraesposizioni, contrasti) dalla volontà di risultare quasi casuali. Ed è proprio in questo "quasi" che è il punto e l'originalità del discorso di Mann. Alì è come l'Howard Cosell di John Voight: un personaggio (attenzione: per giunta un giornalista) interpretato da un attore vistosamente truccato per avvicinarlo alle fattezze della persona che rappresenta. Tutto allo scopo di fare spettacolo, infilandosi fra le crepe della simulazione, alzando parrucchini in diretta, sgusciando fra le correnti d'aria alzate dai pugni dei combattenti, come un occhio danzante al limite del possibile, pericolante e incrollabile sul ring. Alì è la necessità insostituibile di azioni forti e pragmatiche, che lascino il segno e generino una forma di intrattenimento il cui perché spesso è conoscibile solo a lungo termine, una volta assimilato e seguito il ritmo della narrazione, una volta goduto della forma integrale del discorso. Cassisus Clay stupiva con le sue scelte sul Vietnam e sulla religione, le sue dichiarazioni gaglioffe a sorpresa, la sua programmatica sbruffoneria a cui faceva seguire, sempre, i fatti. Si esponeva all'unico scopo di attirare l'attenzione, senza inganni, sulla qualità delle cose che faceva. E' ciò che Mann rispetta profondamente e in parte, forse, invidia (non è certo un autore che si può definire "popolare"). E' ciò che in parte il regista segue col suo cinema, la cui serietà di messa in scena corrisponde singolarmente alle strategie sul ring del pugile: resistenza ed eleganza. E come Muhammed Alì, il cinema di Mann si permette di parlare in rima: ma sono le rime della poesia ruvida della realtà, quella dell'hip hop come forma comunicativa immediata e coinvolgente, quasi cronachistica ma comunque attenta al suono e ai ritmi. Un racconto ibridato, concentrato sulla grana della realtà ma densamente costruito intorno alla macchina da presa e agli attori, che lascia la sensazione di una narrazione in divenire, la registrazione di un attimo di passaggio nella vita di un uomo, che esisteva prima del ciak e continuerà ad esistere dopo i titoli di coda. Un racconto di un rigore progettuale e di un'asciuttezza e semplicità narrativa che affermano, quasi controcorrente, un cinema senza alibi e senza tempo.