il Giardino delle vergini suicide

L’ambigua innocenza
di Emanuele Boccianti

 
  the Virgin suicides, Usa, 1999
di Sofia Coppola, con Kirsten Dunst, Kathleen Turner, James Woods, Josh Hartnett

Col senno di poi, ora che la sua biografia pop di Maria Antonietta è finalmente uscita nelle sale, potremmo azzardare che il lavoro di Sofia Coppola è stato perfettamente anticipato dalla sua opera prima, quasi come se questa fosse stata una sorta di paradigma e, contemporaneamente, di manifesto poetico. Un concept work articolato - finora- in tre atti, magari a comporre un vero e proprio trittico dedicato ad un tema evidentemente a lei caro, esposto nel primo film e di volta in volta esplorato e approfondito nei seguenti. Eppure, tutto era in qualche modo già lì, in quel giardino che compare per strana magia nel titolo italiano, ma che una volta tanto non stona, tentativo forse del distributore nostrano di mitigare, almeno nella presentazione, i sapori sottilmente disturbanti della vicenda di cinque vergini suicide.

La Coppola si fa catturare dal romanzo omonimo di Jeffrey Eugenides, decide di adattarlo per il cinema, e comincia a scriverne la sceneggiatura con piglio febbrile; mentre scrive, la musica di Moon Safari degli Air la accompagna, la aiuta a farsi rapire da quei soffusi e desolanti paesaggi dell’animo femminile, a selezionare alcuni aspetti del libro invece di altri per provocare l’incontro tra il lavoro dello scrittore greco e quelle che sono le tematiche più specificamente nelle proprie corde. Alcune cose restano nel passaggio dal libro alla pellicola, altre, non confacentesi alla sua sensibilità femminile, no. Il Giardino delle vergini suicide diventa così, insospettabilmente, un lavoro orchestrale, in cui confluiscono, sotto la direzione artistica della giovane cineasta, l’ispirazione di un romanziere, l’inclinazione al detour onirico e melanconico di due compositori di musica elettronica, gli Air appunto, e il morbido talento per l’innocenza di una giovane attrice. Il motivo, che esordisce nel Giardino e ritorna sempre nuovo e lo stesso come una fuga di Bach, l’idea fissa, forse l’ossessione di Sofia, è la solitudine della giovinezza femminile, ora vissuta da adolescente, più tardi da moglie, infine come regina.

Eppure è proprio nel primo di questi tre movimenti che si esprime il maggiore potenziale dell’intuizione coppoliana, ed è per questo motivo che è possibile parlare di questo film come di un paradigma, tanto formale quanto narrativo. L’autrice coglie e fa sua l’intuizione di Eugenides secondo cui esiste una incommensurabile carica energetica nella donna, specificamente nella fase adolescenziale della sua esistenza, così intimamente celata dalle sembianze acerbe e dai toni smorzati da essere per ciò stesso ancora più pericolosa: perché insospettabile.
La scelta consapevole dei colori pastello, delle fragranze estive o tardo primaverili e delle figurazioni tipicamente bambine che campeggiano dominanti per tutto il film, esaltate dalla fotografia tiepidamente solare di Edward Lachman, incorniciate dalla musica del duo francese e scandite da una regia solenne, raffinata e al tempo stesso sottrattiva, è molto più che una estrinseca adesione ad uno stile piuttosto che ad un altro. È il viatico attraverso cui questa insospettabilità può materializzarsi narrativamente e arrivare fino a noi, così come arriva ai ragazzi che testimoniano di tutta la storia delle sorelle Lisbon, e li fa innamorare. È l’arma di cui dispongono Lux e le altre, quell’innocenza che Kirsten Dunst, splendida, sa fingere perfettamente, che permea come una filigrana d’argento tutto il film, e tramite cui la regista costruisce una perfetta impalcatura d’ambiguità; un’arma che, alla fine, le cinque vergini non potranno far altro che rivolgere contro se stesse, ma solo dopo aver fatto vittime un po’ ovunque, nei cuori (i cinque ragazzi imprigionati negli anni a venire dentro quell’oscuro enigma per loro senza spiegazioni) e nella testa (il povero Trip Fontaine, il volto da adulto consumato e spento prestatogli da un redivivo Michael Parè).

Visto sotto questa prospettiva, inaspettatamente, il Giardino rivela interessanti legami di parentela con altri film che in passato hanno dipinto la figura femminile come portatrice di una pericolosa carica di eversività: di uno di questi, Picnic ad Hanging Rock, ne abbiamo parlato in precedenza proprio su queste pagine, tentando di evidenziare come vadano spesso di pari passo innocenza e potenziale panico (inteso nel senso più etimologico del termine: chi vuole vada a riscoprire le assonanze tra questi esempi di cinema e il celeberrimo Saggio su Pan di James Hillman). Anche nel film di Weir vediamo in atto il tentativo storicamente istituzionalizzato di imbrigliare questo potenziale: lì era un collegio, qui una semplice famiglia, ma la severità delle regole e l’ossessione religiosa sono le stesse, affidate tra l’altro ad una bravissima Kathleen Turner, carceriera e segregatrice ancora prima che madre, complice un passivo e sperduto - e memorabile - James Woods padre. Segregare un energia, dunque, attraverso un meticoloso processo di depauperizzazione del valore erotico che non ammette falle, e che ha il fine ultimo, ancorchè non dichiarato, di spersonalizzare, di mortificare.
È come se un destino particolarmente beffardo avesse deciso di sperimentare gli effetti di una concentrazione così singolare di femminilità primordiale dentro la stessa casa. “tutti noi ci chiedevamo come il nostro professore di matematica e sua moglie avessero potuto generare tante splendide creature”: quasi fosse stato proprio il diavolo (leggi, ancora una volta: Pan) a metterci lo zampino. Così, tanto per vedere l’effetto che fa. E l’effetto è sempre distruttivo, ci ricordano scrittori e registi. L’energia non può conservarsi contenuta e imbrigliata per sempre, è un deposito di scorie radioattive, che si può seppellire in profondità quanto si vuole, ma è sempre lì. E filtra all’esterno. Impregna le vicinanze, il vicinato, fa smarrire le menti, devasta i cuori. È un’energia subdola, come si diceva più sopra, perché intrinsecamente mendace, veicolata dalla bellezza e dalla bellezza dell’innocenza.

Altrove, Sofia Coppola declinerà il suo personale paradigma della solitudine femminile attraverso l’impianto in contesti differenti, minimali come un matrimonio o massimali come la corte di Versailles. Ma c’è sempre un’anima femminile imprigionata in scena, che si tratti delle quattro mura della casa familiare, di un albergo di Tokyo come in Lost in translation, o di una reggia barocca. Lo specifico del Giardino delle vergini suicide sta dunque nel momento in cui si è deciso di bloccare lo studio del carattere femminino: è un frame-stop sull’istante zero del percorso di crescita di una donna, quando qualcosa che non si è abituati a nominare o a gestire prende vita, e per paura di non poter controllare si disconosce o si sequestra. E così ogni volta l’antico dramma della strega che deve essere bruciata prende atto.