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Maggio / giugno 2008

Brevi
backtrack di Giuliano Tomassacci




 
Highscores

Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo
John Williams (Concord Records)
Già in tempi non sospetti John Williams aveva espresso il desiderio di tornare alle avventure dell’archeologo giramondo, evidentemente motivato a riprendere il tema-totem di Indian Jones (stendardo della musicazione high adventure della Hollywood moderna e insieme summa devota dell’epica in stile swashbuckler classico) e a comporre una nuova partitura per la sempre ventilata quarta declinazione del franchise Lucas-Spielberg. A posteriori, con il Teschio di Cristallo orami completato e licenziato nelle sale, non si può non iscrivere il nuovo score del settantaseienne compositore tra le numerose virtù di questo riuscito sequel. Il lavoro del musicista, prevedibilmente, non scommette tutto sull’indubbia presa della marcia dei Predatori (“Raiders March”), che insieme al volto spavaldo di Harrison Ford rappresenta in fondo il vero trait d’union di questa saga nelle saghe, ma attinge all’impressionante, ancora fervida vena tematica di Williams nella definizione di un nuovo scenario melodico debitamente corrispondente alle occorrenze narrative del sequel. La cattivissima Irina Spalko, l’adolescente selvaggio Mutt e l’imperscrutabile Teschio eponimo si aggiudicano spartiti personali che non lesinano in quanto a funzionalità e carattere: rispettivamente un serpentino inno che si colora di sinfonismo russo (particolarmente nelle pagine action di “The Jungle Chase” e nell’esposizione integrale del “Finale”, con evidenti bagliori virtuosistici a là The Terminal); una tipica forma-scherzo williamsiana (“The Adventures of Mutt”), seppur non del tutto emblematica del personaggio di riferimento e, in effetti, solo circostanzialmente assegnatagli; un ambigua ed ipnotica rivisitazione del materiale alieno forgiato, negli anni, dal musicista per Spielberg, abilmente connotato in veste sci-fi anni ’50 attraverso il decisivo effetto Theremin (in realtà il modernissimo continuum fingerboard, latore di flussi elettronici già connaturati al vocabolario sintetico del compositore). L’eccellenza armonica del compositore si dimostra inalterata e l’impianto leitmotivico saggiamente strutturato all’interno della più recente forma orchestrale dell’autore. Tratto sincretico, quest’ultimo, che non sembra tra l’altro svilire quest’ultima incursione jonesiana a confronto con l’inaugurale partitura della quadrilogia, benché la freschezza compositiva e il genuino estro narrativo di quest’ultima restino ineguagliati. Anche le sporadiche scritture maggiormente indicative del vizio stilistico e di una certa ingessatura risolutiva non intaccano la qualità del cimento, che si offre al suo meglio – motivo di ulteriore plauso - a servizio del girato, collocandosi nella curva ascendente che sta riportando Williams e Spielberg alla massima dialettica audiovisiva dopo alcuni titoli segnati da un deperimento sinergico.

le Nevi dl Chilimangiaro / Operazione Cicero
Bernard Herrmann (Naxos)
È difficile parlare di opere minori scorrendo il catalogo cinematografico di Bernard Herrmann. La lista di titoli a cui il genio americano offrì i suoi determinanti servigi è notevolmente (e significativamente) ristretta rispetto alla liste filmografiche dei suoi colleghi attivi durante il profluvio produttivo dello studio-system. Inoltre è ben difficile indagare con sguardo paradigmatico tale portfolio evidenziando prove al di sotto della media, che non abbiamo in un modo o nell’altro, in un’epoca o nell’altra, contribuito fondativamente al magistero alla musica da film. Torna allora più facile indicare le coeve partiture di The Snows of Kilimanjaro (Le nevi del Chilimangiaro, 1952, di Henry King) e 5 Fingers (Operazione Cicero, di Joseph Mankiewicz) - che l’instancabile Naxos riedita direttamente dal catologo Marco Polo nelle registrazioni di William Stromberg e John Morgan - come lavori fuori dalla conoscenza totu-court dell’artista, intendendo arbitrariamente e per difetto la riconoscibilità dell’arte herrmanniana al grande pubblico come controparte scontata del cinema di Hitchcock o del Welles più studiato. Anche per questo i due score splendidamente registrati dall’Orchestra di Mosca meritano riscoperta, in quanto rispettivamente maturazione del carattere floridamente sinfonico dell’autore seguito alle glorie di Quarto potere e anticamera stilistica dei dettami thrilling che Herrmann avrebbe impostato di lì a qualche anno per il maestro del brivido. Il commento per il film di King, mantenendosi all’interno dei topoi orchestrali indiscussamente coniati dell’artista, offre pagine di insolita rigogliosità melodica (si ascolti il breve ma intensissimo “The Silence”). Di converso, nel lungometraggio di Mankiewicz, la scrittura si asciuga e guadagnano preminenza le estreme intervallature, le distanze armoniche, le contrapposizioni di registro nella tavolozza orchestrale (Joseph Caporiccio, nel libretto accluso, nota giustamente come alcuni pentagrammi serviranno da matrice per il danzante intervento musicale nella sequenza onirica del successivo La donna che visse due volte).
Il tradizionale approccio filologico dei curatori, motiva ulteriormente il valore di questa straordinaria presentazione, rendendola edizione imprescindibile nello studio e nell’apprezzamento dell’opus herrmanniano.


On Screen

Parola d’ordine: velocità. Per Michael Giacchino sintonizzarsi allo sfavillante Speed Racer dei Wachowski ha significato innanzitutto premere sul pedale dell’accelerazione, un’occorrenza che le stimate partiture finora vergate dell’enfant prodige della nuova cinemusicalità hollywoodiana - a cui la doxa guarda con speranza per un rinascimento del discorso orchestrale sul grande schermo - hanno ormai certificato come strutturali al suo temperamento compositivo. Comprensibile quindi la scelta del tandem regsitico di affidarsi a lui, rinunciando per l’occasione al vigore elettroacustico del Don Davis di Matrix. Estremi di un sound che comunque trovano spazio anche nella scrittura di Giacchino e convincono particolarmente quando il sinfonismo si allinea - tagliente - alle sezioni ritmiche. Elettrizzati da quel funambolismo formale che ha definito gli score de Gli Incredibili e Ratatouille, quasi ogni brano ha un’idea, una soluzione o uno svolgimento che convince. Da non sottovalutare l’insistenza sulle masse degli archi negli adagi sottratti ai segmenti action: soprattutto qui s’individuano i germi di quell’identità stilistica che pare farsi strada tra la preponderante brillantezza del virtuosismo.

Battezzato dal consenso di Spielberg, Once vive della sua musica. Fuori e dentro. Le canzoni si danno come repertorio di scena e legano il film come commento over; germinano su schermo ad uso dei personaggi e guadagnano la dimensione discorsiva nell’emanazione disinvolta tra racconto ed extradiegesi. La coppia di interpreti / cantanti della finzione filmica ricalca nella realtà la professione canora dei due attori protagonisti, favorendo ulteriormente lo statuto d’intermediarità tra i livelli del codice musicale. Esemplificativa la copertina del disco: i due, lui con la chitarra in spalla, avanzano frontali camminando sul manico dello strumento. Che è infatti fulcro delle 13 canzoni proposte dalla Columbia, in equilibrio tra pop, folk e grunge; con un gusto evidente per le accentuazioni irish, naturali alla connotazione locale. Bella prova di entrambi i solisti, con punte di bravura nel duetto di “Falling Slowly”, nella title-track e nell’assolo di Glen Hansard per “When Your Mind’s Made Up”.

In una sentita nota di ringraziamento a Mark Isham e alla sua musica per Reservation Road, Terry George, nel booklet del cd (Lakeshore Records), chiede di innamorarci dello score, come lui ha fatto ad ogni ripetuto ascolto. È però cosa ben difficile entrare in rapporto sentimentale con un commento lontanissimo dagli stimoli canonici della commozione musicale e dell’empatia trascinante. Il suono, atomizzato nelle sue componenti timbriche, armoniche ed esecutive (nell’asettica ripresa fonica di Simon Rhodes e nel mix di Dennis Sands), isola ogni nota, decontestualizzandola da ogni possibile procedimento melodico, da ogni abbordabile aggancio di significazione tout-court. Il fatalismo desaturato su cui Isham lavora orami da tempo origina dalla lezione di Thomas Newman, dall’impasto evanescente di diatonismo semplice, indeterminazioni ambient tra dub e organico con propaggini new age; nel relegarsi sullo sfondo di un’estetica impalpabile quasi fino all’impercettibilità, la partitura raggiunge particolare efficacia nell’evidenziazione ulteriore del lavoro d’ensemble attoriale - vera ragion d’essere del film. Il maturo incrocio tra acustica ed elettronica, su cui il trombettista ha fondato larga parte delle sue occorrenze cinematografiche, collabora significativamente. E alla fine, anche la flebile anima emotiva timorosamente espressa dal clarinetto della title-track, evapora e soccombe in favore di un’algida composizione che rifugge il caldo sentimento ad ogni ingerenza di pianoforte.


Off Screen

Sospendendo la predilezione per le registrazioni dei classici cine-musicali curate da Stromberg e Morgan, la Naxos propone un’uscita inedita nel suo catalogo, peraltro dedicata ad un autore contemporaneo. Resta però inalterata la cifra musicale del grande sinfonismo applicato, profuso a piene mani dal lavoro del poco noto William Perry. Accostabile a Jerrold Immel e Bruce Broughton per dedizione al formato televisivo e caratura estetica, il compositore, direttore d’orchestra e strumentatore americano è colto nel suo impegnativo lavoro per lo scoring di sei film catodici ispirati (dal 1980 all’86) a Mark Twain. L’eterogeneità produttiva del ciclo (tra cui figura anche l’Italia, responsabile della riduzione di The Innocents Abroad, per la regia di Luciano Salce) si riflette nelle connotazioni folcloristiche con cui Perry ha intarsiato ogni partitura; innesti che fioriscono da un humus distintamente coplandiano, in debita assonanza musicale con lo spirito americano precipuo alla letteratura di riferimento. Eterogenei anche gli scenari di registrazione, che hanno visto il compositore alla guida della Filarmonica slovacca, la Sinfonica di Vienna e l’ormai sciolta Orchestra Filarmonica di Roma.

Forse il maggior ritratto dello spirito agrodolce innato nel comporre di Carlo Rustichelli, la colonna sonora del primo Amici miei, con la sua incontrastata aderenza alla più mordace modalità da commedia all’italiana, si presenta in tutta la sua popolare semplicità grazie alla Cinevox, la cui ristampa si fregia di sette brani inediti. Il reggente valzer del lungometraggio e l’indimenticato utilizzo di “Bella figlia dell’amore” guadagnano così variazioni e articolazioni finora private dell’ascolto disgiunto dalle immagini. Rustichelli lavora su un tradizionale ma assolutamente efficace approccio allargato, slegato perlopiù dal sincronismo puntale e accarezza la cialtroneria del quartetto Tognazzi-Celi-Noiret-Moschin incorniciandolo in una sarabanda di sferzante complicità che ne sublima gli eccessi e il candore. Avrebbe dovuto dirigerlo Germi, compagno sodale del compositore, ma poi finì alle cure di Monicelli, anch’egli predisposto alle collaborazioni con il carpigiano. Ineluttabilmente, il film aspirava al tocco di Rustichelli: chiunque l’avesse diretto, sarebbe stato suo.

Indagare le origini di un compositore cinematografico, soprattutto quando alle spalle c’è una carriera musicale già conclamata in differenti ambiti artistici, è sempre motivo di interesse, particolarmente quando il passaggio alla musica applicata impegna il musicista in un serio e convincente adattamento dei propri canoni stilistici alle direttive strutturali della non facile disciplina “a servizio”. È il caso di Corruzione al palazzo di giustizia (Fin de Siècle Media), seconda incursione di Pino Donaggio nella colonna sonora, datata 1975. Il lavoro steso dall’allora trentatreenne compositore per il poliziesco di Marcello Aliprandi si pone come esempio paradigmatico di questa necessaria ricodifica tecnica e compositiva. Donaggio, già violinista d’eccellenza ancor prima che celebrato autore di canzoni - nonché scevro dei diktat herrmanniani in seguito richiesti da De Palma e metabolizzati al proprio stile - filtra il suo nitore melodico in una partitura di misurata professionalità. Senza eludere il confronto con il mestiere, il compositore riesce a mantenersi in equilibrio tra personalità ed esercizio, finanche sacrificando spazio alla prima per assicurare puntualità alle immagini. Retrospettivamente, molta di questa rigorosa umiltà sembra essere mancata a colleghi ugualmente trasferitisi al cinema da altri epicentri musicali. Forse anche per questo, il cinema americano non ha tardato ad interessarsi ad un autore così affine al praticantato cine-musciale d’oltreoceano.

Nuova emissione morriconiana a cura della Cinevox, immancabile di certo per i completisti e di buon interesse per uno studio sistematico dell’estetica compositiva insistita dall’autore in uno dei suoi periodi di copiosa produttività. Anche senza aggiudicarsi particolare rilevanza all’interno del portfolio di Morricone, il commento al passionale Così come sei (1978) di Lattuada (già edito in digitale da Prometheus) segnala puntualmente quella tutt’altro che sottesa tendenza morriconiana a divergere - seppur moderatamente - dai fulcri tonali, registrando gli equilibri della partitura sulla fluida erranza tra melodismo e sopravanzo atonale, addensamenti e rarefazioni. Segni identificativi di questo bifrontismo estetico sono le figure, inveterate nel compositore, dei mobili veli d’archi designati a cangianti passaggi accordali (“Così come sei”) e l’intensità melodrammatica del rigonfiamento romantico, qui incarnato da un memorabile tema d’amore (“Amore per amore”). Da menzionare l’apparizione di “Dance On” (con liriche di Michael Fraser), brano source schiettamente disco ’70, composto per il film ma passato alla memoria collettiva dopo l’inclusione in Bianco, rosso e Verdone. Edizione digipack con 8 tracce indite.


25 fotogrammi

A riprova di quanto significativo si stia dimostrando il contributo di Michael Giacchino alla ripresa di un discorso orchestrale strutturato e connotativo, si ascolti il doppio cd edito da Varèse Sarabande / Audioglobe che riassume (primo disco) lo scoring della terza stagione di Lost e propone l’integrale partitura dell’episodio di chiusura (secondo disco). È un approccio organico al senso e alla semantica del serial ideato da J. J. Abrams quello elaborato dal compositore ricorrendo, ancora una volta, al lessico strumentale espressionista. Atonalismo come esasperazione della suspense e dell’ignoto; puntillismo armonico, avanguardismo timbrico (glissandi scomposti, tremoli crescenti, registri estremi) e ritmica tribale come sintassi di una tela sonora indecifrabile, sempre in prossimità del punto di rottura, della cadenza inattesa o del baratro dissonante. C’è tutto il magistero della musica da film anni ’70, dal Goldsmith più acuto ed ambizioso (per stare a questa edizione del serial, ne sia prova “Under the Knife ”, con una figura percussiva talmente cara al compositore losangelino da essere diventata, nel 1978, tema portante di Capricorn One) al sound fantascientifico del Williams d’antan per i mondi di Irwin Allen, filtrati attraverso l’immancabile e quantomai valido dogma herrmanniano. Con il rischio stringente, certo, di abbandonarsi all’accademismo e al derivatismo, ma anche con il coraggio espiante di chi scrive come “non si dovrebbe” all’interno del medium televisivo contemporaneo. Non è un caso poi che le pagine di Lost snocciolino il maggior volume di parti per archi finora composte dell’autore, in cui il suo tratto più autentico sembra primeggiare: quella per l’isola in mezzo al nulla continua infatti ad imporsi come l’esperienza maggiormente rappresentativa di un talento che altrove non risuona ancora del tutto cosciente della propria identità caratterizzante.