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Indiana Jones e il regno
del teschio di cristallo

Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull, Usa, 2008
di Steven Spielberg, con Harrison Ford, Cate Blanchett, Karen Allen, Ray Winstone, Shia LaBeouf, John Hurt

Steven Spielberg e le guerre di Pirro
recensione di Giuliano Tomassacci



Assodata la propensione, forse virale, di questa lunga stagione cinematografica hollywoodiana per il recupero, il saccheggio e la reiterazione, va registrata anche la sua presa non indifferente sul comparto autoriale più insospettabile. Steven Spielberg, dopo il ritorno a La guerra dei mondi, sceglie di prolungare il franchise di Indiana Jones a diciannove anni dal compimento della trilogia interpretata da Harrison Ford, che ora si apprende in realtà destinata a comporre una pentalogia. Dalla sua, il cineasta di Cincinnati ha avuto la natura di un progetto tra i più adatti alla serializzazione, che con la sue radici nel romanzo avventuroso d’appendice, nei film seriali anni’30 e nel trattamento fumettistico permette, in tutta legittimità, un reset ciclico delle impostazioni narrative concludenti ogni episodio. Perché di episodi, nella loro valenza telefilmica di segmenti autoconclusivi - e non di puntate narrativamente aperte ad una continuazione non solo del racconto e della temporalità, ma anche di tutti gli esistenti in quanto indispensabili ad un processo di sviluppo drammatico - si è alimentato finora l’apparato diegetico su cui si muove l’intraprendente archeologo con cappello e frusta. Lo ha sancito indiscutibilmente il secondo capitolo della serie, Indiana Jones e il tempio maledetto, assai scollato da tutti i riferimenti ambientali, umani e caratteriali (l’assenza dell’università-base, dei personaggi ricorrenti, delle certezze psicologiche iconizzanti il protagonista), che pur reintrodotti con determinazioni ne Indiana Jones e L’ultima crociata hanno comunque palesato una modello di filiazione allargato e non vincolato, anche per questo agevolmente fruibile e destinato al riconoscimento popolare immediato. Spielberg si è poi ritrovato la libertà di collocazione di un eroe sostanzialmente libero dai confini della saga e dai rispettivi meccanismi di adempimento agli universi precedentemente allestiti, in quanto ramingo di saghe per antonomasia (quelle dell’arca dell’alleanza, delle credenze indiane, dei crociati) ed oggetto/soggetto mitologico lui stesso - quindi autosufficiente. Per il resto, il cimento del regista si prefigurava come quello di un Pirro cosciente di un campo di battaglia brulicante di avversità ed ostacoli.
La guerra di Pirro di Spielberg è stata quella di confrontarsi nuovamente con il co-realizzatore della serie George Lucas, nonché ideatore nominale (con Philip Kaufman) del personaggio; collaborazione non proprio idilliaca come forse fin troppo ostentato negli anni (è ancora Il tempio maledetto il capitolo rivelatore: voluto da Lucas, poco amato da Spielberg), ma soprattutto regolata da un’idea lucasiana della continuazione (o dell’anticipazione, nel caso dei prequel) discutibilmente puntigliosa, con punte di asservimento ai diktat delle aspettative di massa spesso degenerative, finanche squalificanti sul profilo artistico. La storia del franchise ha voluto però Lucas già sazio - almeno per il momento - di sguardi in analessi, grazie all’apprezzata filiazione televisiva de "Le avventure del giovane Indiana Jones", prodotta nel 1992.

La guerra di Pirro di Spielberg è stata quella di voler tornare al progetto con piglio filologico, nel rispetto del cast, delle soluzioni di messa in scena e di estetica (effetti speciali old fashion compresi), dei regimi narrativi e rappresentativi instradati dal trittico originale. Si attesta che, sul campo, la strategia deve poi essere cambiata: Janusz Kaminski, nonostante il dichiarato studio delle pellicole fotografate da Douglas Slocombe per riportarne in vita lo spirito, non resiste alla sua blasonata direzione della fotografia, abbacinando infine di fasci luminosi i set di Guy Hendrix Dyas. Spielberg, per quanto intenzionato ad attenersi alla sua messa in quadro anni ’80, articola un discorso filmico ricco delle fluidità maturate a seguire (magari a sfavore di un lavoro più elaborato sul découpage), particolarmente evidenti nella scrittura registica delle notevolissime sequenze action (su tutte l’inseguimento "jeep-a-jeep" nella giungla amazzonica), dove le iniezioni di CGI certo non mancano. E il rispetto del casting limitato alle partecipazione attoriali e non al loro aspetto anagrafico permette squarci analitici inediti sul personaggio interpretato da Harrison Ford - peraltro portatore di una senilità quasi esasperata da questo nuovo ritratto colto sul finire degli anni ‘50. Così, la volontà di aderenza al modulo ma il contemporaneo aggiornamento alle attuali istanze cronologiche (tanto fuori che dentro la diegesi), ibridano un testo che si carica di funzioni meditative e teoriche, in affinità con l’esito raggiunto da Stallone con Rocky Balboa; nella consapevolezza, forse, che riprendere non significa necessariamente regredire, ma soprattutto continuare dall’ultima sosta, evitando le trappole del revival posticcio e dell’autoemulazione schematica.
La guerra di Pirro di Spielberg è stata quella dell’orientarsi verso uno script che non richiamasse troppo in causa le mitologie delle passate saghe e gli avvenimenti dell’allora prestante Indy. La severa selezione della sceneggiatura, sotto cui sono caduti pretendenti di riguardo come Frank Darabont, ha voluto che a spuntarla fosse l’eccellente David Koepp (La morte ti fa bella, Carlito’s Way, Spider-Man), su soggetto di Lucas e Jeff Nathanson. Il suo plot non solo richiama direttamente agli artefatti delle passate avventure nelle sequenze iniziali, ma reintroduce dall’apripista I predatori dell’arca perduta il personaggio di Marion (Karen Allen) legandola a doppio filo al protagonista, incentivando il sottotesto di approdo alla vecchiaia del film e favorendo l’amplificazione del tema familiare congenito all’opera spielberghiana. Koepp lavora ancor più estesamente ad un ripensamento del franchise introducendo la contaminazione di genere: Spielberg risponde con gusto e destrezza, calando nel primo blocco Indy in una situazione serlinghiana da "Ai confini della realtà" colorata di pop-art, e innestando un cross-over virato al B-movie anni ’50 che John Williams coglie altrettanto bene in partitura. Questa sferzata sui generis rispetto allo storico contesto archeologico del Prof. Jones permette anche a Koepp di rimettersi alla tradizione del serial, tessendo un lato mistery della storia all’altezza dei precedenti e forte di un traino decisamente appagante. Ad accrescere l’efficacia del lavoro di sceneggiatura l’aggiunta del giovane “ribelle” Mutt (Shia LaBeouf), responsabile di un accrescimento ritmico nel racconto non trascurabile, del visionario stevensoniano Oxley (John Hurt) e di Irina Spalko, una villain impeccabilmente sbozzata da Cate Blanchett. Non ultimo, il lavoro di script quasi capovolge le dinamiche canoniche: è stavolta Indiana Jones ad essere inseguito piuttosto che a pedinare il reperto tanto agognato, cui anzi è costretto suo malgrado a dare la caccia, oltretutto guidato (lui, ineguagliabile segugio di tesori archeologici) dal collega Oxley. Di nuovo il copione di Koepp facilita al regista la corsia preferenziale per l’immissione in due altri topoi della sua filmografia, l’inseguimento e la fuga: fino ad alti livelli di mise en abîme innescati dall’ambiguità del “fedele” Mac (Ray Winstone), il quale, oscillando continuamente tra buoni e cattivi, determina un plastico spostamento attanziale tra inseguitore e inseguito.

Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo non reclama però alcun atteggiamento velleitario nei confronti del suo impianto di significazione ed è tutt’altro che un testo debole, perfettamente allineato ai suoi predecessori in quanto a concisione espositiva, collimazione dei tempi d’intreccio e impasto serio-comico.
Dunque la guerra di Pirro di Spielberg restituisce un film pienamente riuscito ed avvincente. Proprio perché persa a tavolino in quanto ad aspettative eccessive e oltremodo disparate, Spielberg sembra aver lavorato parallelamente ad un piano di sabotaggio della battaglia annunciata, evitando le trappole che sulla mappa indicavano il cammino risaputo verso la corretta produzione e la vittoria ingannevole (quello che Lucas non sembra aver saputo redigere per i prequel di Star Wars). A dispetto delle dichiarazioni d’intenti sparse in corso d’opera, che ora diventano anch’esse plausibili connotati di quella campagna depistatoria intesa al silenzio stampa introno al lungometraggio. Con il risultato, non facile da raggiungere nel mainstream odierno, di un film che riesce anche a stupire genuinamente.
E la guerra pirrica di Spielberg è una vittoria su tutta la linea.