 |
Highscores
Indiana Jones e il regno
del teschio di cristallo
John Williams (Concord Records)
Già in tempi non sospetti John Williams aveva espresso il desiderio
di tornare alle avventure dellarcheologo giramondo, evidentemente
motivato a riprendere il tema-totem di Indian Jones (stendardo della
musicazione high adventure della Hollywood moderna e insieme
summa devota dellepica in stile swashbuckler classico)
e a comporre una nuova partitura per la sempre ventilata quarta declinazione
del franchise Lucas-Spielberg. A posteriori, con il Teschio
di Cristallo orami completato e licenziato nelle sale, non
si può non iscrivere il nuovo score del settantaseienne compositore
tra le numerose virtù di questo riuscito sequel. Il lavoro del
musicista, prevedibilmente, non scommette tutto sullindubbia presa
della marcia dei Predatori (Raiders March), che insieme
al volto spavaldo di Harrison Ford rappresenta in fondo il vero
trait dunion di questa saga nelle saghe, ma attinge allimpressionante,
ancora fervida vena tematica di Williams nella definizione di un nuovo
scenario melodico debitamente corrispondente alle occorrenze narrative
del sequel. La cattivissima Irina Spalko, ladolescente selvaggio
Mutt e limperscrutabile Teschio eponimo si aggiudicano spartiti
personali che non lesinano in quanto a funzionalità e carattere:
rispettivamente un serpentino inno che si colora di sinfonismo russo
(particolarmente nelle pagine action di The Jungle Chase
e nellesposizione integrale del Finale, con evidenti
bagliori virtuosistici a là The
Terminal); una tipica forma-scherzo williamsiana (The Adventures
of Mutt), seppur non del tutto emblematica del personaggio di
riferimento e, in effetti, solo circostanzialmente assegnatagli; un
ambigua ed ipnotica rivisitazione del materiale alieno forgiato, negli
anni, dal musicista per Spielberg, abilmente connotato in veste sci-fi
anni 50 attraverso il decisivo effetto Theremin (in realtà
il modernissimo continuum fingerboard, latore di flussi elettronici
già connaturati al vocabolario sintetico del compositore). Leccellenza
armonica del compositore si dimostra inalterata e limpianto leitmotivico
saggiamente strutturato allinterno della più recente forma
orchestrale dellautore. Tratto sincretico, questultimo,
che non sembra tra laltro svilire questultima incursione
jonesiana a confronto con linaugurale partitura della quadrilogia,
benché la freschezza compositiva e il genuino estro narrativo
di questultima restino ineguagliati. Anche le sporadiche scritture
maggiormente indicative del vizio stilistico e di una certa ingessatura
risolutiva non intaccano la qualità del cimento, che si offre
al suo meglio motivo di ulteriore plauso - a servizio del girato,
collocandosi nella curva ascendente che sta riportando Williams e Spielberg
alla massima dialettica audiovisiva dopo alcuni titoli segnati da un
deperimento sinergico.
le Nevi dl Chilimangiaro / Operazione Cicero
Bernard Herrmann (Naxos)
È difficile parlare di opere minori scorrendo il catalogo cinematografico
di Bernard Herrmann. La lista di titoli a cui il genio americano offrì
i suoi determinanti servigi è notevolmente (e significativamente)
ristretta rispetto alla liste filmografiche dei suoi colleghi attivi
durante il profluvio produttivo dello studio-system. Inoltre
è ben difficile indagare con sguardo paradigmatico tale portfolio
evidenziando prove al di sotto della media, che non abbiamo in un modo
o nellaltro, in unepoca o nellaltra, contribuito fondativamente
al magistero alla musica da film. Torna allora più facile indicare
le coeve partiture di The Snows of Kilimanjaro (Le
nevi del Chilimangiaro, 1952, di Henry King) e 5 Fingers
(Operazione Cicero, di Joseph Mankiewicz) - che linstancabile
Naxos riedita direttamente dal catologo Marco Polo nelle registrazioni
di William Stromberg e John Morgan - come lavori fuori dalla conoscenza
totu-court dellartista, intendendo arbitrariamente e
per difetto la riconoscibilità dellarte herrmanniana al
grande pubblico come controparte scontata del cinema di Hitchcock o
del Welles più studiato. Anche per questo i due score splendidamente
registrati dallOrchestra di Mosca meritano riscoperta, in quanto
rispettivamente maturazione del carattere floridamente sinfonico dellautore
seguito alle glorie di Quarto potere e anticamera stilistica dei dettami
thrilling che Herrmann avrebbe impostato di lì a qualche
anno per il maestro del brivido. Il commento per il film di King, mantenendosi
allinterno dei topoi orchestrali indiscussamente coniati dellartista,
offre pagine di insolita rigogliosità melodica (si ascolti il
breve ma intensissimo The Silence). Di converso, nel lungometraggio
di Mankiewicz, la scrittura si asciuga e guadagnano preminenza le estreme
intervallature, le distanze armoniche, le contrapposizioni di registro
nella tavolozza orchestrale (Joseph Caporiccio, nel libretto accluso,
nota giustamente come alcuni pentagrammi serviranno da matrice per il
danzante intervento musicale nella sequenza onirica del successivo La
donna che visse due volte).
Il tradizionale approccio filologico dei curatori, motiva ulteriormente
il valore di questa straordinaria presentazione, rendendola edizione
imprescindibile nello studio e nellapprezzamento dellopus
herrmanniano.
On Screen
Parola dordine: velocità.
Per Michael Giacchino sintonizzarsi allo sfavillante Speed
Racer dei Wachowski ha significato innanzitutto premere sul pedale
dellaccelerazione, unoccorrenza che le stimate partiture
finora vergate dellenfant prodige della nuova cinemusicalità
hollywoodiana - a cui la doxa guarda con speranza per un rinascimento
del discorso orchestrale sul grande schermo - hanno ormai certificato
come strutturali al suo temperamento compositivo. Comprensibile quindi
la scelta del tandem regsitico di affidarsi a lui, rinunciando per loccasione
al vigore elettroacustico del Don Davis di Matrix.
Estremi di un sound che comunque trovano spazio anche nella
scrittura di Giacchino e convincono particolarmente quando il sinfonismo
si allinea - tagliente - alle sezioni ritmiche. Elettrizzati da quel
funambolismo formale che ha definito gli score de Gli
Incredibili e Ratatouille,
quasi ogni brano ha unidea, una soluzione o uno svolgimento che
convince. Da non sottovalutare linsistenza sulle masse degli archi
negli adagi sottratti ai segmenti action: soprattutto qui sindividuano
i germi di quellidentità stilistica che pare farsi strada
tra la preponderante brillantezza del virtuosismo.
Battezzato
dal consenso di Spielberg, Once vive della sua musica.
Fuori e dentro. Le canzoni si danno come repertorio di scena e legano
il film come commento over; germinano su schermo ad uso dei personaggi
e guadagnano la dimensione discorsiva nellemanazione disinvolta
tra racconto ed extradiegesi. La coppia di interpreti / cantanti della
finzione filmica ricalca nella realtà la professione canora dei
due attori protagonisti, favorendo ulteriormente lo statuto dintermediarità
tra i livelli del codice musicale. Esemplificativa la copertina del
disco: i due, lui con la chitarra in spalla, avanzano frontali camminando
sul manico dello strumento. Che è infatti fulcro delle 13 canzoni
proposte dalla Columbia, in equilibrio tra pop, folk e
grunge; con un gusto evidente per le accentuazioni irish, naturali
alla connotazione locale. Bella prova di entrambi i solisti, con punte
di bravura nel duetto di Falling Slowly, nella title-track
e nellassolo di Glen Hansard per When Your Minds Made
Up.
In una sentita nota di ringraziamento a Mark Isham e alla sua musica
per Reservation Road, Terry George, nel booklet
del cd (Lakeshore Records), chiede di innamorarci dello score,
come lui ha fatto ad ogni ripetuto ascolto. È però cosa
ben difficile entrare in rapporto sentimentale con un commento lontanissimo
dagli stimoli canonici della commozione musicale e dellempatia
trascinante. Il suono, atomizzato nelle sue componenti timbriche, armoniche
ed esecutive (nellasettica ripresa fonica di Simon Rhodes e nel
mix di Dennis Sands), isola ogni nota, decontestualizzandola da ogni
possibile procedimento melodico, da ogni abbordabile aggancio di significazione
tout-court. Il fatalismo desaturato su cui Isham lavora orami
da tempo origina dalla lezione di Thomas Newman, dallimpasto evanescente
di diatonismo semplice, indeterminazioni ambient tra dub e
organico con propaggini new age; nel relegarsi sullo sfondo
di unestetica impalpabile quasi fino allimpercettibilità,
la partitura raggiunge particolare efficacia nellevidenziazione
ulteriore del lavoro densemble attoriale - vera ragion dessere
del film. Il maturo incrocio tra acustica ed elettronica, su cui il
trombettista ha fondato larga parte delle sue occorrenze cinematografiche,
collabora significativamente. E alla fine, anche la flebile anima emotiva
timorosamente espressa dal clarinetto della title-track, evapora
e soccombe in favore di unalgida composizione che rifugge il caldo
sentimento ad ogni ingerenza di pianoforte.
Off Screen
Sospendendo
la predilezione per le registrazioni dei classici cine-musicali curate
da Stromberg e Morgan, la Naxos propone unuscita inedita nel suo
catalogo, peraltro dedicata ad un autore contemporaneo. Resta però
inalterata la cifra musicale del grande sinfonismo applicato, profuso
a piene mani dal lavoro del poco noto William Perry. Accostabile a Jerrold
Immel e Bruce Broughton per dedizione al formato televisivo e caratura
estetica, il compositore, direttore dorchestra e strumentatore
americano è colto nel suo impegnativo lavoro per lo scoring
di sei film catodici ispirati (dal 1980 all86) a Mark Twain. Leterogeneità
produttiva del ciclo (tra cui figura anche lItalia, responsabile
della riduzione di The Innocents Abroad, per la regia
di Luciano Salce) si riflette nelle connotazioni folcloristiche con
cui Perry ha intarsiato ogni partitura; innesti che fioriscono da un
humus distintamente coplandiano, in debita assonanza musicale con lo
spirito americano precipuo alla letteratura di riferimento. Eterogenei
anche gli scenari di registrazione, che hanno visto il compositore alla
guida della Filarmonica slovacca, la Sinfonica di Vienna e lormai
sciolta Orchestra Filarmonica di Roma.
Forse il maggior ritratto dello spirito agrodolce innato nel comporre
di Carlo Rustichelli, la colonna sonora del primo Amici miei,
con la sua incontrastata aderenza alla più mordace modalità
da commedia allitaliana, si presenta in tutta la sua popolare
semplicità grazie alla Cinevox, la cui ristampa si fregia di
sette brani inediti. Il reggente valzer del lungometraggio e lindimenticato
utilizzo di Bella figlia dellamore guadagnano così
variazioni e articolazioni finora private dellascolto disgiunto
dalle immagini. Rustichelli lavora su un tradizionale ma assolutamente
efficace approccio allargato, slegato perlopiù dal sincronismo
puntale e accarezza la cialtroneria del quartetto Tognazzi-Celi-Noiret-Moschin
incorniciandolo in una sarabanda di sferzante complicità che
ne sublima gli eccessi e il candore. Avrebbe dovuto dirigerlo Germi,
compagno sodale del compositore, ma poi finì alle cure di Monicelli,
anchegli predisposto alle collaborazioni con il carpigiano. Ineluttabilmente,
il film aspirava al tocco di Rustichelli: chiunque lavesse diretto,
sarebbe stato suo.
Indagare le origini di un compositore cinematografico, soprattutto quando
alle spalle cè una carriera musicale già conclamata
in differenti ambiti artistici, è sempre motivo di interesse,
particolarmente quando il passaggio alla musica applicata impegna il
musicista in un serio e convincente adattamento dei propri canoni stilistici
alle direttive strutturali della non facile disciplina a servizio.
È il caso di Corruzione al palazzo di giustizia
(Fin de Siècle Media), seconda incursione di Pino Donaggio nella
colonna sonora, datata 1975. Il lavoro steso dallallora trentatreenne
compositore per il poliziesco di Marcello Aliprandi si pone come esempio
paradigmatico di questa necessaria ricodifica tecnica e compositiva.
Donaggio, già violinista deccellenza ancor prima che celebrato
autore di canzoni - nonché scevro dei diktat herrmanniani
in seguito richiesti da De Palma e metabolizzati al proprio stile -
filtra il suo nitore melodico in una partitura di misurata professionalità.
Senza eludere il confronto con il mestiere, il compositore riesce a
mantenersi in equilibrio tra personalità ed esercizio, finanche
sacrificando spazio alla prima per assicurare puntualità alle
immagini. Retrospettivamente, molta di questa rigorosa umiltà
sembra essere mancata a colleghi ugualmente trasferitisi al cinema da
altri epicentri musicali. Forse anche per questo, il cinema americano
non ha tardato ad interessarsi ad un autore così affine al praticantato
cine-musciale doltreoceano.
Nuova
emissione morriconiana a cura della Cinevox, immancabile di certo per
i completisti e di buon interesse per uno studio sistematico dellestetica
compositiva insistita dallautore in uno dei suoi periodi di copiosa
produttività. Anche senza aggiudicarsi particolare rilevanza
allinterno del portfolio di Morricone, il commento al passionale
Così come sei (1978) di Lattuada (già
edito in digitale da Prometheus) segnala puntualmente quella tuttaltro
che sottesa tendenza morriconiana a divergere - seppur moderatamente
- dai fulcri tonali, registrando gli equilibri della partitura sulla
fluida erranza tra melodismo e sopravanzo atonale, addensamenti e rarefazioni.
Segni identificativi di questo bifrontismo estetico sono le figure,
inveterate nel compositore, dei mobili veli darchi designati a
cangianti passaggi accordali (Così come sei) e lintensità
melodrammatica del rigonfiamento romantico, qui incarnato da un memorabile
tema damore (Amore per amore). Da menzionare lapparizione
di Dance On (con liriche di Michael Fraser), brano source
schiettamente disco 70, composto per il film ma passato alla memoria
collettiva dopo linclusione in Bianco, rosso e Verdone.
Edizione digipack con 8 tracce indite.
25 fotogrammi
A
riprova di quanto significativo si stia dimostrando il contributo di
Michael Giacchino alla ripresa di un discorso orchestrale strutturato
e connotativo, si ascolti il doppio cd edito da Varèse Sarabande
/ Audioglobe che riassume (primo disco) lo scoring della terza
stagione di Lost e propone lintegrale partitura
dellepisodio di chiusura (secondo disco). È un approccio
organico al senso e alla semantica del serial ideato da J. J. Abrams
quello elaborato dal compositore ricorrendo, ancora una volta, al lessico
strumentale espressionista. Atonalismo come esasperazione della suspense
e dellignoto; puntillismo armonico, avanguardismo timbrico (glissandi
scomposti, tremoli crescenti, registri estremi) e ritmica tribale come
sintassi di una tela sonora indecifrabile, sempre in prossimità
del punto di rottura, della cadenza inattesa o del baratro dissonante.
Cè tutto il magistero della musica da film anni 70,
dal Goldsmith più acuto ed ambizioso (per stare a questa edizione
del serial, ne sia prova Under the Knife , con una figura
percussiva talmente cara al compositore losangelino da essere diventata,
nel 1978, tema portante di Capricorn One) al sound
fantascientifico del Williams dantan per i mondi di Irwin Allen,
filtrati attraverso limmancabile e quantomai valido dogma herrmanniano.
Con il rischio stringente, certo, di abbandonarsi allaccademismo
e al derivatismo, ma anche con il coraggio espiante di chi scrive come
non si dovrebbe allinterno del medium televisivo contemporaneo.
Non è un caso poi che le pagine di Lost snocciolino
il maggior volume di parti per archi finora composte dellautore,
in cui il suo tratto più autentico sembra primeggiare: quella
per lisola in mezzo al nulla continua infatti ad imporsi come
lesperienza maggiormente rappresentativa di un talento che altrove
non risuona ancora del tutto cosciente della propria identità
caratterizzante.
|