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Zodiac
id., Usa 2007
di David Fincher, con jake Gyllenhall, Robert Downey Jr., Mark Ruffalo, Antony Edwards, Chloë Sevigny
Il killer latente
recensione di Emanuele Boccianti



Non è facile avvicinare un film come Zodiac, forse non è facile neppure farselo piacere. I film sui serial killer, veri o inventati, non sono così. Fincher ce lo ha insegnato, anche lui. Anzitutto, qui si sa il finale, perché Zodiac è stato uno dei più grandi e longevi accadimenti di cronaca nera della storia americana, e già questo è un bel problema. Poi perché Zodiac non esiste, ed è sempre buona cosa che in un thriller su un omicida seriale l’omicida esista. Invece no, perché non ha un volto nella cronaca, e non lo ha neppure nel film. E non esiste neppure nel peso drammaturgico degli eventi e delle psicologie, consacrando l’ultimo film di David Fincher come l’apoteosi della detection: pura investigazione, nessuno spazio per personaggi che non siano i tre detective, il loro morbo di svelare, le pene da pagare per questa ossessione. Di volta in volta Zodiac è una voce senza volto, l’ombra di uno psicopatico che impugna la pistola col silenziatore, un vestito da carnefice, col cappuccio e il cinturone con il pugnale, la telefonata e le lettere di uno psicopatico; poi è il sospetto numero uno, poi il numero due, poi il tre e di nuovo l’uno. Si chiama Leigh, poi Chris, poi ancora Leigh, poi non si chiama più. Non esiste perché nessun appiglio è concesso all’audience per poterlo identificare, e tentare il vero gioco proibito del ‘serial thriller’ – parteggiare per il cattivo- è impossibile. Non lo puoi ammirare come un coltissimo cannibale, non lo puoi temere come un John Doe castigatore divino. Le sue dimensioni, immense inizialmente, vengono ritoccate di continuo, ed egli resta temibile solo per le gesta perpetrate, ma nel più minimale senso del termine. Nessuna logica, nessun senso: uccide a caso, e questo vuol dire che non lo identifichi dalle sue vittime. Modus operandi differente, scene del crimine mancanti di coreografie, dunque nessun rito di morte a spiegarti la sua religione del dolore. Infine, Zodiac è un cattivo comunicatore. Lancia minacce che non mantiene, sembra appropriarsi della paternità di delitti commessi da altri, i suoi codici o vengono decrittati da anziani appassionati di enigmistica, o a tutt’oggi ancora non sono stati decodificati – che è un ottimo esempio di cattiva comunicazione. E alla fine “sparisce nei trafiletti”, come dice il poliziotto Dave Toschi. Ma in realtà il killer dello zodiaco tra le colonne della carta stampata ci era nato, una genitura imposta a forza di ricatti: pubblicatemi o ucciderò ancora. Non avendo una personalità sua propria, e conscio di questo, aveva forzato la biomassa mediatica americana a costruirgliene una, un bozzolo da cui lui sarebbe poi uscito, scomparendo all’orizzonte, diventando semplicemente storia. Esistendo solo in quanto evento mediatico, poteva sparire quando voleva, semplicemente smettendo di interloquire attivamente. Toschi, Avery e Graysmith, ben interpretati dal lavoro di Ruffalo, Downey Jr. e Gyllenhall – ma soprattutto Ruffalo- non riescono a trovarlo perché non lascia scie se non nel mondo finto della carta e dell’etere. Tutto il resto è l’odissea delle prove e degli indizi, tra quello che si sente di sapere –cioè si spera - e quello che si può dimostrare; tra le difficoltà di organizzare la prima grande azione cooperativa tra diverse forze di polizia negli Usa e la necessità di non farsi intrappolare dalle prove indiziarie o dalla burocrazia giudiziaria; le capziosità delle perizie calligrafiche e l’avarizia degli indizi sul campo.
Ci sono pochi precedenti per il lavoro di Fincher, bisogna andare a pescare, per prendere un titolo recente, La promessa di Sean Penn, ma per il resto è prova di originalità e anche di audacia. Oltre che di maturazione sul piano stilistico: non c’è Darius Khondji alla fotografia e non c’è Howard Shore alla colonna sonora, e si vede: nessuno rimpiange il cromatismo madido di questi due grandi, ma per la prima volta abbiamo un Fincher di cui non sentiamo la macchina da presa, un montaggio mimeticamente millimetrico, sonorità interne alla storia, verrebbe da dire “endogene”, e una composizione della figura scenica provvista di una dinamica tutta interna al frame, lasciando al montatore solo il dovere di transitare da un quadro all’altro, senza quella cinematica ipernarrativa tipica del cinema fincheriano. Emerge in certi punti, mi è sembrato, un tratto quasi disidratato nelle scelte visive del regista, come se avesse usato un metodo sottrattivo per inventare a nostro beneficio la realtà di Zodiac. Se l’effetto collaterale di questo approccio è l’assoluta mancanza di suspence (una scelta dovuta, dacché praticamente mai i protagonisti della storia entrano in relazione con il killer, e di conseguenza non sono mai esposti a pericolo di vita), c’è da chiedersi se l’autore sia stato fino in fondo consapevole dei rischi in cui un thriller acardiaco come Zodiac incorre. Perché probabilmente a molti non piacerà. Non piacerà vedersi raccontare la storia ultima dei serial killer (non l’ultima storia, come provocatoriamente il regista ha dichiarato di voler fare), in cui il cattivo è davvero un signor nessuno, il quale malgrado le apparenze non corrisponde a nessuna delle iconografie che, bontà loro, i grandi e piccoli cineasti hanno inventato per noi. Non piacerà, però forse era il miglior progetto perseguibile se si vuole fare, oggi, un film che racconti di omicidi seriali.