la Promessa

La profondità della visione
di Adriano Ercolani e Luca Persiani

 
  The Pledge, Usa, 2001
di Sean Penn, con Jack Nicholson, Benicio Del Toro, Helen Mirren, Robin Wright Penn, Vanessa Redgrave, Mickey Rourke, Sam Shepard, Harry Dean Stanton


Del Genere
Se pensiamo a ciò che si intende oggi per "cinema d'autore" all'interno dei generi hollywoodiani codificati, ci accorgiamo immediatamente di come tutti i più grandi registi contemporanei usino gli stilemi più collaudati per "sabotarli" poi attraverso la propria poetica, soprattutto visiva. Da John Woo a Steven Spielberg, da Tim Burton a David Fincher, è ormai pratica comune "rispettare" il più possibile una certa estetica ed un certo ritmo, usando questo rispetto come passepartout per innestare l'esplorazione personale delle possibilità del mezzo cinematografico. Questa rivisitazione del concetto di "genere", che cerca di estenderne ed allo stesso tempo di minarne il significato più classico, non è che il punto di partenza del terzo film da regista di Sean Penn, perché La Promessa si presenta come operazione a sé stante. La particolarità saliente del film è infatti l'assoluta libertà nel decidere il ritmo degli eventi, il dispiegarsi della trama, il fluire della vicenda. Non rispettando nessun condizionamento di ritmo imposto dalle regole del thriller contemporaneo, il film sceglie di raccontare una storia attraverso i silenzi, i momenti mancati, la suspence che abbandona le strade battute per arrivare quasi inaspettata da altrove. In questo senso Penn sembra davvero aver fatto sua e riproposta al pubblico la lezione dei grandi autori venuti fuori tra la seconda metà degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, con l'omonimo (ma non parente) regista Arthur in testa. In questo senso Penn sembra davvero aver fatto sua e riproposta al pubblico la lezione dei grandi autori venuti fuori tra la seconda metà degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, con l'omonimo (ma non parente) regista Arthur in testa. Molto calzante ci sembra il paragone con Bersaglio di Notte, altro giallo che sconfina nell'opera personale, ed in un certo qual modo racconta la stessa vicenda umana che Sean ha voluto raccontare in La Promessa.
La capacità, inoltre, di usare una storia facilmente riconoscibile, e rendere invece poi la narrazione del tutto adeguata ad un discorso personale, sembra davvero una caratteristica delle migliori produzioni dell'autore di Gangster Story. L'operazione è anche possibile grazie alle straordinarie doti d'attore di Jack Nicholson, che qui presta tutta la sua invadente fisicità ad un personaggio che, al contrario, corre velocemente verso il disfacimento.

La profondità
Per costruire il suo discorso cinematografico, Sean Penn sbilancia tutte le scelte visive verso l'elaborazione di una fotografia fatta di piani molteplici e stratificati, una fotografia dalla rara incisività di colore e contrasto, opera dell'inglese Chris Menges. Per materializzare sullo schermo la dualità genere/autore di cui abbiamo parlato, il regista decide di affidare alla profondità di campo il compito di staccare, schiacciare, confondere, oscurare o sottolineare il rapporto dei personaggi con l'ambiente. La sfida è quella di raccontare un melodramma minimo - la decadenza di un uomo - con la tensione del thriller che scorre sotterranea, poco visibile allo spettatore, ma che, in momenti precisi, esplode ricordandoci che il principio della tragedia è la lotta di una persona contro un fato incomprensibilmente punitivo e imperscrutabile: quanto di più vicino al male c'è nella figura del cattivo della suspence classica. Jerry Black, il personaggio di Jack Nicholson, si muove in primo piano ma completamente fuori fuoco nell'acquario triste della festa d'addio alla sua gloriosa carriera di poliziotto, idealmente decentrato sia rispetto al mondo che sta lasciando che a quello della vita "normale" che lo aspetta. E' un cliché, quello del buon vecchio poliziotto che va in pensione - soppiantato dalle nuove leve - pur essendo ancora in gamba, ma la qualità della messa in scena consente all'emozione di arrivare diretta allo spettatore, scavalcando quasi completamente i mezzi letterari e le necessità verbali che sembrerebbero inevitabili nel trasporre sullo schermo il romanzo di Friedrich Dürrenmatt. Così la figura di Jerry, con la forza e la credibilità dell'archetipo classico,sembra muoversi per tutto il film in questo stato sospeso fra la realtà che scava e deforma i volti - impressionante quello segnatissimo di Robin Wright -, quella realtà in cui si affacciano i camei di attori "deglamourizzati" dalla vita (in primis Mickey Rourke, ma anche Harry Dean Stanton, Vanessa Redgrave, Helen Mirren e Sam Shepard), e la strana deformazione fantastica e infantile ma dal peso emotivo assolutamente reale della visione dell'Uomo Nero che uccide i bambini.

La visione
Il film è proprio il racconto dello sbilanciamento e della caduta incontrollata di Jerry nella semplicità di questo orrore bambino, che il protagonista vive sia con gli occhi delle possibili vittime, sia con la mente del poliziotto e dell'uomo maturo (quest'ultima un'ottica forzatamente più cosciente e angosciante). Ancora una volta la fotografia di Chris Menges sottolinea con precisione e calore questo stato mentale del protagonista, come nella scena del ritrovamento della prima vittima, dove le luci delle macchine della polizia saltano fuori dal buio paesaggio di montagne innevate come fari semplici e inquietanti, tracciando riflessi verticali sullo schermo e invadendo lo spazio diegetico con un ulteriore strato narrativo astratto ed emozionante. Inizialmente il racconto è calato con forza nella traccia del thriller violento e cupo, con l'episodio esemplare dell'interrogatorio di Bernicio Del Toro, dove la capacità comunicativa delle parole comincia ad essere seriamente stravolta e snaturata per la necessità di ottenere una definizione soddisfacente e consolante del Male. Poi il film sembra man mano sbandare, fino a ci accorgiamo che già dall'inizio stavamo navigando nel racconto della vecchiaia di un poliziotto, il cui volo mentale e le cui emozioni riempiono inaspettatamente bene i nodi dell'azione. E' la storia "semplice" di un uomo anziano che corre sul filo impossibile della labile sanità mentale che ancora riesce mantenere, dopo aver scelto, per necessità, di vivere contemporaneamente fra la maturità intristita della vecchiaia e la visione intuitiva limpida e forte di un bambino. Ma anche se non la si vede, la tensione del Genere c'è sempre. Sta lì ad aspettare pazientemente, guardando da lontano la strada e il drugstore isolato dove Jerry ha deciso di esiliarsi per costruire una nuova vita. Aspetta nella mente dell'ex poliziotto, che non è capace di vivere senza sussultare ogni volta che una familiare nera si ferma per fare benzina. E non si tratta di un delirio senile: le paranoie del vecchio investigatore sono giustificate. La tensione e l'orrore del film stanno proprio nella tragedia di un'intuizione geniale e giusta, rovinata dall'imprevedibilità della vita e dall'impossibilità del protagonista di comunicare la sua visione, la sua strategia e, in ultimo, il senso della sua vita alle persone che ha intorno e che ama. Tanto che l'esistenza di Jerry viene distrutta nonostante il suo amore sia puro e forte e la verità sia dalla sua. E' il destino dei visionari che scoprono vie invisibili e non riescono a tracciare sentieri che le svelino al mondo che hanno intorno. La Promessa è la messa a fuoco particolare di un modo narrativo antichissimo, la rivivificazione del senso profondo dei contrasti interni ed esterni che generano il movimento del racconto. E quest'operazione riesce a vibrare semplicemente e in maniera emozionante sulla sola superficie delle immagini, mentre le parole punteggiano timidamente il racconto con lo scopo necessario ma limitato di svelare l'inadeguatezza e le impossibilità di un modello di comunicazione verbale sempre più difficile da gestire.