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Zatoichi
Zatôichi, Giappone, 2003
di Takeshi Kitano, con Takeshi Kitano, Tadanobu Asano, Michiyo Ookusu, Gadarukanaru Taka

Il genere, il tempo, il gioco
recensione di Francesco Rosetti

Venezia 60 - 2003



Kitano, da sempre, contrappone nei suoi film il tempo del gioco al tempo dell’azione e della responsabilità sociale. Gli spettacolini per il piccolo Masao ne L’ estate di Kikujiro, i piccoli divertimenti sulla spiaggia di Sonatine, l’ intero flashforward sognato in Boiling Point - dove l’esperienza cinematografica tutta intera è sospensione del tempo sociale - , il vagabondaggio stesso degli amanti di Dolls.
E il gioco al cinema diventa gioco con il cinema, gioco linguistico, gioco figurale. Il lavoro sul genere, sugli innesti, i rimandi, le citazioni, presente in Zatoichi dal primo all’ultimo fotogramma, appartiene alla volontà ludica di creare uno spazio magico (nel senso primario di pensiero magico), infantile, in cui ricombinare di continuo i segni, che acquistano tutti una potenziale infinità di significato. Gestire il linguaggio e le sue continue metamorfosi, non subirlo passivamente: questo è il problema di Kitano e di tutti quei cineasti autori che affrontano il genere e i suoi codici con volontà autoriale e non per semplice funzionalità commerciale. Problema di soluzione non facile, dal momento che al cinema lo spettatore concepisce, con quanto visto, delle vere e proprie ‘relazioni d’ oggetto’, che gli consentono di riconoscersi con facilità e di abbandonarsi nel mare dei tropi e delle figure (dai personaggi alla narrazione, agli stereotipi, agli ambienti) della pellicola. Ma il gioco, come concepito da Kitano, non è questo pigro sprofondare in un mondo familiare e sempre uguale, dominato dall’ istanza percettiva della m.d.p. (e dell’ occhio in sala). Se l’ occhio in sala si immerge in un mondo conosciuto e confortevole da riconoscere e dominare, esiste allora una soglia critica per la percezione spettatoriale? E la sensazione del piacere scopico è immediata o indotta? Il cinema e la cultura pop sono luoghi dove si manifesta l’inconscio e l’ immaginario collettivo o, piuttosto, veicoli di messaggi ideologici di industrialismo e postindustrialismo trionfanti-massificanti? E’ la questione del cinema come linguaggio e del suo rapporto con la realtà, analizzata dal punto di vista sociologico (il cinema come ideologia, secondo Adorno e Benjamin) e quello antropologico-psicanalitico (il cinema come inconscio collettivo, rituale mitografico, il post-modern). Quali risposte sia possibile dare a questa domanda è difficile dire (infinite?); certo è che le due versioni di apocalittici e integrati, per una generazione di cineasti entrata adesso nella maturità e cresciuta nel vivo di questo dibattito, sono entrambe insufficienti. Quel che conta per loro non è il fatto che lo spettatore, fiducioso di ritrovare tutti i codici condivisi della significazione in sala (stereotipi, luoghi, personaggi, azioni, trama, linguaggio ecc.), sia un amabile emotivo che nell’immagine ritrovata assapora il suo biscotto proustiano e abbraccia la sua memoria cinefila in un commosso panteismo, o un esempio di pigrizia intellettuale che si mimetizza in quanto visto, per ottusa ricerca di sicurezza, nel circuito sempre uguale di immagini conosciute e vissute come una coperta di Linus. Quello che conta è che per registi come Kitano, Tarantino, i Coen, Tim Burton, fuori dal linguaggio - in questo caso fuori dal figurale, dall’ imagerie, dal circuito dell’immagine -, non si dà percezione del reale possibile e tanto vale prenderne atto. Ci si può opporre all’immaginario postindustriale? Sì, ma a costo di una radicale scelta polemica di cinema periferico (e anche in quel caso la memoria visuale del circuito di immagini non può essere completamente evitata: non si danno immagini completamente altre). Va a farsi benedire la nozione di originalità autoriale come creazione dal nulla, forma perfetta germinata dal caos informe della materia. Esistono solo i codici, le grammatiche, i generi, fare cinema ripartendo da questo assioma è l’unico modo possibile dell’autorialità. Il gioco linguistico (alla Wittgenstein, ma riportato sulle immagini) è la critica alle forme condivise, l’osservazione razionale del loro funzionamento, la dialettica sottile tra immedesimazione e straniamento. Così Van Sant può fotocopiare (a colori) Hitchcock (Psyco); Haynes può pantografare il melò sirkiano e fare il remake di un intero genere; Tarantino può girare una pellicola in cui ogni singolo fotogramma è rimando citazionistico a materiale pop (non parliamo, poi, della screwball comedy dei Coen) e la citazione diventa forma di rilettura dell’originale.
In Kitano, tornando a Zatoichi, un film di samurai può tranquillamente sostenere un finale musical con tanto di tip tap. Per ottenere questo puro gioco dello spettatore con il visibile, Kitano tende a sfumare sempre di più le immedesimazioni possibili con i personaggi, privati di ogni possibile sguardo soggettivo. Già in Dolls, evitando la trappola del narratore onnisciente, Kitano costruiva un universo di pura contemplazione, con un Giappone-cartolina trasfigurato e cristallizzato pittoricamente in cui si muovevano amanti senza vita (marionette appunto, fuori dal tempo e dalla storia), i cui flashback risultavano non frammenti di memoria affettiva, forse neanche di vita vissuta, ma solo frattura tra uno spazio edenico, forse mai esistito (i personaggi e le loro possibilità), e uno fantasmatico, l’eterno presente dei fantocci.
Anche il Giappone di Zatoichi è un non luogo, uno spazio sospeso, senza tempo e sviluppo narrativo (la trama è ridotta alla sua ossatura più elementare) e i personaggi sono maschere (il massaggiatore guerriero, cieco, con tanto di capigliatura biondo platino e bastone-elsa laccato di rosso; le due finte geishe, cioè una donna fallica e un ragazzo travestito; i banditi yakuza) o fantasmi già morti o condannati a morte (il ronin dei Ginzo).
Siamo d’altronde nel film in costume, l’immaginario per eccellenza, privato di ogni riferimento possibile al reale. Un mondo di pura iconicità, sospeso nella sua stessa perfezione rappresentativa e quindi smontabile a piacimento dal regista-critico e giocoso, anzi giocoso quindi critico. Anche qui, il ricordo, il flashback è semplicemente lo spazio rappresentato di una vita mancata o segnata (per il ronin e le geishe), e per Zatoichi soltanto un elenco di battaglie (omaggi a Kurosawa e a I sette samurai, ma anche allo stilismo della violenza, il sangue digitale come un ideogramma, una forma perfetta, che non elimina l’amarezza ma la moltiplica dopo il riso).
In questo universo beckettiano e svuotato anche linguisticamente, il comico e le coreografie dei duelli sono appunto il momento del gioco, esasperato poi nel finale musical. Abbiamo già detto che il cinema di Kitano è un tentativo riscoprire il momento della contemplazione e della scoperta ludica contro il finto tempo dell’azione sociale. Ebbene, in Zatoichi l’azione sociale è banditismo, la vera attività di coscienza sta proprio nella perdita di sé nell’atto corporeo. La stessa violenza stilizzata diventa una fantasia infantile da Wili E. Coyote, una specie di balletto liberatorio e ridicolo che si esorcizza da sé nei suoi significati ambigui (l’ evidenza del sangue digitale) e concentra lo spettatore solo sul dinamismo del combattimento (o magari della gag negli intermezzi comici). Non è casuale che Zatoichi ami il gioco dei dadi e la sua apparente casualità. Solo nella casualità dei segni, il gioco diventa ricerca dell’imprevedibile, continua rivelazione del senso. Lo scatenamento finale è la manifestazione di quell’energia infantile che nel cinema del regista giapponese è sempre rimasta un intermezzo prima che il tempo storico (meccanico e ineffabile) riprenda il suo corso (appunto, come accennato all’inizio: i giochi di Sonatine, L’ estate di Kikujiro). E’ il tempo del gioco il vero tempo del senso.