V per Vendetta

Anarchy in the UK
di Emanuele Boccianti

 
  V for Vendetta, USA, Germania, 2006
di James McTeigue, con Hugo Weaving, Natalie Portman, John Hurt.


Chissà cosa si aspetta chi deciderà di andare a vedere V per Vendetta, e chissà se saranno aiutati o infastiditi quelli che il romanzo grafico l’hanno già letto, magari amato, e stanno sulle spine, non sapendo cosa aspettarsi, e tentano vanamente di dimenticare il capolavoro di Alan Moore per evitare di incappare nel luogo comune del “però il libro era più bello”. Le credenziali del nuovo prodotto dei fratelli Wachowsky sono complicate e ingarbugliate, come è giusto che sia in questo caso. Un regista di seconda unità promosso per l’occasione a regista (James McTeigue); due cineasti sparati nell’olimpo del cinema dalla decennale fatica di Matrix che scelgono di invertire i ruoli e si declassano a registi di seconda unità per una specie di affettuoso passaggio di testimone, salvo poi essere anche i produttori del lavoro nonché sceneggiatori; infine, la penna demoniaca di Alan Moore. Già, Alan Moore. Il più geniale, controverso e indipendente autore di fumetti contemporaneo, che trattare in maniera rispettosa e fedele in una trasposizione cinematografica sembra un impresa soverchiante. Ci si provò con From Hell, raggiungendo tiepidi risultati, e con La Leggenda degli uomini straordinari, e qui forse è meglio tacerne l’esito. Insomma, a conti fatti, una gran bella scommessa, la cui posta è parecchio alzata dal tema decisamente sensibile del romanzo sorgente.
 
“V” parla di politica. C’è un’Inghilterra futuribile in preda ad un delirio totalitario neofascista, un potere saldamente controllato da un partito che gioca pesante con propaganda, polizia segreta, coprifuoco, razionamento dei viveri, perfino un “ministero per la messa al bando del materiale cuturalmente riprovevole”, e così via, tanto da ricordare molto da vicino il retrofuturo distopico di George Orwell. “V” parla di Vendetta, con la maiuscola, ed è solo il caso di accennare qui alla strana abbondanza in questo periodo di prodotti cinematografici che parlano di, o richiamano al tema della vendetta. La trilogia di Chan Wook Park (terzo capitolo: Lady Vendetta), ma anche l’ultima opera di Spielberg Munich, tratta da un libro che si chiama per l’appunto “Vengeance”. Ad esempio. In più, “V” parla di terrorismo. Apriti cielo.
Ad opporsi alla dittatura che decima le vite e livella le coscienze c’è un solitario vendicatore mascherato, noto solo col nome “V” appunto, paludato nelle sembianze di un personaggio storico britannico del XVII secolo, uno che ogni anno si festeggia a Londra coi fuochi d’artificio, si festeggia perché ovviamente non è riuscito a far saltare in aria il Parlamento inglese (è l’episodio storico della Congiura delle Polveri, a.d. 1605). Solo che qui è il buono, incarna i valori che tutti noi vorremmo veder vincere in una storia. Però usa le bombe, e ammazza, e a ben vedere prima di tutto la pulizia che intende fare è di tipo strettamente personale, fa fuori quelli che lo avevano rinchiuso e torturato a suo tempo, e lo hanno fatto diventare quel che è: un uomo sfigurato nel fisico e dilaniato nella coscienza, che deve nascondersi dietro una maschera da Guy Fawkes (il congiurato sfortunato del 1605) dal ghigno perenne e beffardo.
Ora, d’accordo, ad agire come edulcorante della storia di Moore, gravida di neri e di grigi dolenti e di sottotrame drammatiche, c’è il formato del nuovo medium, l’action wachowskiana, la linearizzazione del plot, la semplificazione della portata eversiva del messaggio dell’antieroe al popolo lobotomizzato; e però la grana grossa del racconto resta. Niente dialogo, niente confronto civile, V usa coltelli e bombe, e fa saltare per aria gli edifici del potere, il Big Ben, nientemeno. C’è da sperare che, indipendentemente da come si decida di giudicare il film alla fine, si riesca a mettere a fuoco almeno per un minuto lo swing sottile che vuole farci ballare la storia di V: farci cioè oscillare costantemente tra immedesimazione nell’eroe cappa e spada, romantico in maniera deliziosamente retrò come tutto il suo stile (una figura che ama e si veste di vaudeville, rivede ossessivamente i vecchi film come Il Conte di Montecristo del 1934, ha una dimora piena di poster di James Cagney e dei Fratelli Marx) e presa di coscienza della sua natura radicalmente violenta e anarchica, così come fortemente anarchico (e in questo senso giovanilmente ideologico) è il carico del messaggio originale del signor Moore. L’attrito è percettibile.

Il film di McTeigue crea un precedente significativo nella cinematografia mooriana. È senza dubbio un prodotto riuscito ed autonomo, perfino emozionante, soprattutto nella prima metà, in cui l’universo fuori e dentro i personaggi viene tratteggiato, ed in cui il sapore melò della narrazione è ben equilibrato e condisce con emozioni anche forti alcuni momenti, come la catabasi personale di Evey Hammond, la protetta del vendicatore, a cui Natalie Portman presta un volto delizioso, magari pure troppo. Le scelte di casting sono senz’altro azzeccate, come la difficile prova di Hugo Weaving, che dà fondo a tutto il suo background teatrale per riuscire a fornire espressione ad un personaggio che non ne possiede più una. E grande –in tutti i sensi- John Hurt, che recita praticamente sempre in formato superliminale proiettando il suo volto da Grande Fratello su tutta l’Inghilterra, saltando così dall’altra parte di un’ideale barricata avendo in passato interpretato proprio Winston Smith, l’eroe solo di 1984 nella trasposizione di M. Radford. Ironie del cinema. Menzione anche per il viso da segugio triste di Stephen Rea, troppo spesso monopolio quasi esclusivo del cinema di Neil Jordan, mentre le sue doti di caratterista andrebbero esplorate probabilmente anche in altre direzioni. Il respiro, il battito del film è quello giusto, malgrado i tempi siano decisamente oltre il canonico (132 minuti), e la Londra del 2020 è un efficace coacervo di grigi e architetture funeree, riconoscibile e anonima al tempo stesso.
Laddove il film mostra il fianco è invece in una eccessiva stilizzazione della dialettica popolo-partito, suggerita più che veramente evocata per immagini e situazioni, col risultato di trasformare la vicenda rivoluzionaria in una parabola. Le persone sembrano troppo facilmente svegliate dall’attività destabilizzante di V, come in un meccanismo ad orologeria prestabilito. Nella storia originale la rivoluzione arrivava al termine di un tormentato e bellissimo rapporto del vendicatore con il popolo, fatto di apparizioni fantasmatiche e di vere e proprie arringhe, qui completamente tagliate fuori dallo script.

Forse il punto più debole di tutta l’architettura è, paradossalmente, proprio il fatto che sia stata partorita dalle menti di due registi che hanno in buona parte riformato il cinema d’azione. V per Vendetta non è un action movie, né sarebbe mai potuto esserlo. Il combattimento finale non è impreziosito dalla tecnica del bullet time, anzi, la scena stona nella sua pretesa hi tech, risulta accademica in senso deteriore, sembra quasi un tradimento all’intrigante peculiarità del protagonista per i vecchi film di spadaccini: è un momento in cui la forma-cinema appare mortificare l’idea-cinema, che avrebbe voluto una sua veste più specifica, e originale. Viene il dubbio che il prodotto di Andy e Larry Wachowsky possa essere considerato l’alfa e l’omega del cinema fabbricato sulle storie di Alan Moore: finchè avevamo davanti film brutti o riusciti a metà si poteva sperare in meglio, e ora c’è da chiedersi, proprio ora che non siamo di fronte a qualcosa di brutto né di incompleto, se il nostro stimato autore di comics non porti con sé un radicale narrativo intrinsecamente irriducibile all’ottava arte. E magari è proprio questo l’ultimo Valore di V per Vendetta.