la Terra dei morti viventi

Rimettere la morte nel cuore
di Luca Persiani

 
  George A. Romero's Land of the dead, USA, 2005
di George A. Romero, con Simon Baker, John Leguizamo, Dennis Hopper, Asia Argento, Robert Joy


George A. Romero al suo meglio: bel ritmo narrativo, solide idee di messa in scena, interessanti intuizioni sociali, gusto vecchio stampo per il gore, che riesce ancora a regalare qualche momento originale, divertente e raggelante.
Produttivamente, la Terra dei morti viventi è un b-movie, ma molto più ricco dei precedenti zombi di Romero. Dieci anni fa, con i suoi 40 milioni di dollari di budget, poteva essere tranquillamente un film mainstream. E oggi, nondimeno, lo sembra. Ma non essendolo, ne può agilmente evitare le trappole: non fa nessuna concessione a quel modo di fare cinema americano sguaiatamente frammentato, fuori controllo, scomposto dalle sue stesse esplosioni, che diffonde le sue metastasi ormai a tutti i generi.
L'ondata di zombi cinematografici degli ultimi 20 anni - a partire da il Giorno dei morti viventi, l'ultima incursione romeriana nel genere - non ha visto notevoli variazioni di stile. Ne ha portate però di punti di vista. Re-animator di Stuart Gordon è il punto di vista exploitation della scienziato alle prese con l'identità: qual'è il senso dell'ossessione di vincere la distruzione fisica fino al punto di riportare in vita i morti rendendoli una parodia folle dell'essere originale? Il Ritorno dei morti viventi di Dan O'Bannon è il punto di vista degli anni '80 sul classico zombie-movie romeriano: una commedia-parodia quasi clownesca con scream-queen inclusa. Splatters di Peter Jackson ridà il punto di vista del corpo: quale potrebbe essere una commedia atroce e demenziale se il corpo umano (o parti di esso) avessero la facoltà di mettere in scena un film? Resident Evil di Paul W. S. Anderson è il punto di vista degli zombi: quale film potrebbe piacere ad un morto vivente che ricorda appena, imitandolo goffamente, il senso della sua esistenza di vivo appassionato di videogame? 28 giorni dopo di Danny Boyle ha un punto di vista molto inglese: la sopravvivenza agli zombi è una guerra dipinta quasi come uno sport estremo di resistenza. l'Alba dei morti viventi di Zack Snyder presenta il puro punto di vista dello spettatore inseguito dagli zombi: un film di intrattenimento shoccante, aggressivo e veloce come i suoi zombi, un'intelligente attualizzazione del classico romeriano da cui prende il titolo. L'omaggio parodico Shaun of the dead di Edgar Wright (che ha un cameo insieme allo sceneggiatore Simon Pegg ne la Terra dei morti viventi) è il punto di vista dell'uomo comune, del piccolo impiegato fra Clerks e "I Simpson", che vede l'invasione di morti viventi come splendida occasione per diventare famoso.
Gli zombi di George A. Romero hanno invece sempre suggerito una molteplicità di punti di vista. Perché Romero ama esporre la carne putrida e la violenza dei suoi zombie, ma ama anche immergerli in un contesto sociale molto connotato e realistico. Romero fa reagire il morto vivente con la società che lo ha prodotto, esponendo all'aria le interiora e le contraddizioni.
Ne la Terra dei morti viventi, Romero realizza per la prima volta una sintesi geniale e spiazzante, suggerendo la risposta ad un quesito da lui stesso raccolto e gridato con forza. "Quando non ci sarà più posto all'inferno, i morti cammineranno sulla terra". Ma quale sarà il destino di chi, sulla terra, c'è già ed è vivo? Il cinema degli zombi ha avuto una sola risposta, finora: guerra perpetua. Tanto che lo zombie movie si avvicina ormai al post-apocalittico quasi sovrapponendosi ad esso. Ma ne la Terra dei morti viventi Romero scombina le carte. Dando seguito all'intuizione dello "zombi con raziocinio" - vedi il Bub de il Giorno dei morti viventi -, Romero si spinge fino a donare ai morti una coscienza. Ma non una qualsiasi: una coscienza di classe.
Gli zombie (guidati da un leader nero!) cominciano a rendersi conto della loro condizione. Romero mostra come i superstiti umani rinchiusi in una città-fortezza, tentino essi stessi - come gli zombi - di simulare la vita che avevano prima dell'epidemia che ha generato i morti viventi. Con una tale baldanza e violenza che arrivano a utilizzare gli zombie in cattività come divertimento nei locali, o nei campi di tiro al bersaglio. Romero avvicina gli zombi allo spettatore tentando, addirittura, un'empatia con i mostri carnivori, finalmente coscienti della loro mostruosità e dell'odio nei loro confronti.
Gli zombie acquisiscono coscienza, dunque, e reclamano uno spazio loro. I morti cercano un posto tra i vivi. I vivi non hanno scampo: continueranno a consumarsi in una guerra che non può avere vincitori. Oppure devono imparare a convivere con i morti, non a distruggerli. È un processo che non può non leggersi come metafora della rimozione psicologica della morte. In una società in cui si tende violentemente a negare o anestetizzare la morte (salvo poi esserne travolti spettacolarmente nel momento di impensabili attacchi terroristici, dipartite di personaggi famosi idolatrati - che si chiamino Diana Spencer o Karol Wojtyla - o catastrofi naturali), Romero evoca una strada coraggiosa e provocatoria per il risanamento di questo scompenso - e lo fa con un exploitation sui morti viventi. È necessario reintegrare correttamente nella nostra vita l'idea della morte. Ridare una dignità, una coscienza sociale, alla morte che tutti abbiamo affrontato o affronteremo. I morti continueranno a camminare fra di noi, reclamando la nostra carne, fino a che non gli restituiremo il loro posto dentro di noi, nella nostra cultura, nei nostri cuori. Certo, l'intuizione di Romero non è sviscerata (sembra paradossale, visto che parliamo di zombi cannibali) e dispiegata con tutta la forza che un tema del genere meriterebbe. Ma, se non altro, è spinta davanti ai nostri occhi con forza.
E suggerire tutto questo divertendoci con quello che funziona perfettamente come gore sui morti viventi è un'impresa unica. Romero tenta con profonda onestà, a volte riuscendo, a volte no, di illuminare i suoi spettatori mentre li intrattiene. Che, poi, "è quello che fanno gli autentici narratori per servire l'uomo" (Darin Morgan).