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Sideways
In vino veritas
di Adriano Ercolani

 
  id., Usa, 2004
di Alexander Payne, con Paul Giamatti, Thomas Haden Church, Virginia Madsen, Sandra Oh.


Il vino
Miles (Paul Giamatti) è arrivato a metà della propria vita, e sa di aver fallito. Da due anni è solo, separato dalla sua ex-moglie, che lo ha lasciato per un altro uomo; insegna stancamente letteratura in una scuola media e ha scritto un bel libro che però nessuno pubblicherà mai. Miles è un grande esperto di vino, e tenta inconsciamente di sfogare la sua depressione nel “tour etilico” che ha progettato con il suo migliore amico Jack (Thomas Haden Church) per celebrare l’ultima settimana di libertà di costui prima del matrimonio. Con eccessiva abnegazione, durante il film, questo personaggio ostenta la sua vasta dottrina proprio come fa chi, in assenza di un qualcosa di positivo all’interno della propria esistenza, si aggrappa aridamente ad una passione, tanto da tramutarla poi in ossessione; in molte scene Sideways racconta con precisione assoluta questo meccanismo, delineando il comportamento del protagonista con una lucidità disarmante. La bellezza del personaggio di Miles viene poi definitivamente fuori quando entra in scena Maya (Virginia Madsen), una donna che con lui condivide l’amore e la conoscenza del vino, che sembra aver passato le stessa difficoltà, ma con cui ha imparato a convivere; Maya parla infatti di vino con trasporto, come d’altronde Miles, ma con un equilibrio a lui sconosciuto. Attraverso dialoghi, parole e silenzi che in apparenza sembrano raccontare altro, la sceneggiatura di Alexander Payne e del fido Jim Taylor (e probabilmente anche il romanzo di Rex Pickett, da cui è tratta) delinea alla perfezione la differenza di stato d’animo di un uomo e una donna che tra loro hanno molto in comune, ma che stanno attraversando due momenti completamente diversi. Sideways è costruito su uno script raffinatissimo, capace di disegnare almeno tre personaggi favolosi, tristi e veri per quanto mai è possibile. Più che nella storia, che a dire il vero ogni tanto scivola verso la schematicità, è nella loro profondità che va ricercata l’importanza del film.
Ma torniamo al vino, ancora psicologica ed emotiva che tiene ancora legato Miles alla propria disastrata esistenza. Dalla prima dimostrazione di competenza, man mano che la storia procede verso la presa di coscienza del protagonista verso le proprie reali necessità, assistiamo ad un progressivo ed ineluttabile distacco: l’amore “distorto” per il vino (ma vedeteci pure quello che volete, anzi quello che sentite: musica, arte, sport, cinema…) viene progressivamente sostituito da quello “sano” per Maya. Nella propria, personale discesa agli inferi, fatta di piccole ferite quotidiane invece che di grandi drammi, Miles riacquista nel dolore la propria identità e la propria forza, abbandonando le sue false certezze per la ricerca di un qualcosa di veramente importante. In svariati momenti Sideways racconta senza fronzoli questo cambiamento, attraverso scene splendide nella loro veridicità, come ad esempio quella semplice e rivelatrice in cui Miles alla fine consuma la sua mitica, agognata, rarissima bottiglia di vino dentro un fast-food, in compagnia di cibo assolutamente scadente: lo svelamento dell’inganno è avvenuto, la finzione di una vita miserrima viene a cadere. Cacciati tutti suoi fantasmi, questo piccolo grande eroe spaurito potrà riprovare a vivere: non sapremo se ci riuscirà, ma è nel tentativo che sta la sua affermazione. Cinema silenzioso, ma ineccepibile e sconvolgente.

La verità
Come già detto appunto, la parte più autentica di Sideways è nei personaggi, non nelle situazioni. Per almeno mezz’ora il film stenta a decollare, troppo concentrato nel raffigurare il disagio di Miles, con un Paul Giamatti che a tratti esagera in un’interpretazione nervosa ed assai caratterizzata - dopo, invece, sarà interprete desolato e straordinario. Alcuni momenti del film vengono costruiti con una certa meccanicità, come accade anche per i dialoghi. Poi, improvvisamente, dalle situazioni più comuni viene fuori un senso di autenticità spiazzante, che confonde ed allo stesso tempo commuove. Quando comincia a svilupparsi la storia dei due amici con Maya e Stephanie (Sandra Oh) Sideways decolla. Nell’indecisione e nella paura di Miles, nella baldanza sbruffona di Jack, nella vitalità trattenuta di Maya, iniziano a comporsi dei mosaici psicologici raffinati ed affascinanti, che progrediscono in tappe che non sanno di programmatica scelta di sceneggiatura, ma di vitale corso delle cose. Payne riesce a fare arrivare gli eventi dove ogni spettatore sa che dovranno arrivare, ma compie il piccolo miracolo di inserire ogni momento di verità possibile: la svolta emotiva del film io l’ho trovata in una semplice, comune inquadratura. Mentre Jack e Stephanie sono ormai amanti focosi, Maya e Miles decidono di passare la notte insieme dopo che la sera precedente le reciproche paure hanno prevalso. In auto stanno andando a casa di lei. In questa inquadratura, Miles si ferma a guardarla mentre guida, sorridente: nei suoi occhi ho visto, per la prima volta dall’inizio del film, il desiderio e la speranza. La verità attraverso l’intelligenza di un cinema asciutto e pulito, come quello dei grandi narratori di anime.
L’altra grande verità di Sideways sta nel rapporto d’amicizia tra Jack e Miles, due persone diametralmente opposte, speculari nella loro diversità, drammaticamente divertenti; Payne strizza l’occhio alla tradizione del buddy movie e ne riscrive gli stilemi secondo la propria sensibilità, tratteggiando due caratteri incompatibili ma inscindibili. La bellezza nella messa in scena di questa amicizia è nel non detto, anzi nel non spiegato: è quando non sia ha quasi più niente in comune che l’unico legame possibile è quello più profondo, interiore; questo in sostanza accade ai due. Le vicissitudini che vengono superate nel film non portano ad un rafforzamento retorico del rapporto, ma semplicemente svelano allo spettatore (e cioè a chi ha bisogno di conoscere, non ai personaggi) il sentimento che tiene uniti Miles e Jack, un sentimento non necessita di essere puntellato e mai viene messo in discussione. La loro amicizia è lì, e basta: il realismo e l’acutezza di Sideways stanno nel parlare d’amicizia: non nel volerla spiegare, ma soltanto nel raccontarla. Ancora una volta, si arriva al nocciolo della questione grazie all’emozione, non alla logica. La verità viene da dentro, non dal cinema che la confeziona.

Il cinema e la critica
Devo ammettere che non ho affatto amato i precedenti film di Alexander Payne. Li ho ammirati, ne ho apprezzato la coerenza di linguaggio e l’intelligenza, ma non mi hanno emozionato. Certo, mi ha scosso la grandezza di Jack Nicholson in A proposito di Schmidt, ma null’altro. A parte qualche nobile eccezione (Kubrick, Buñuel, i fratelli Coen e pochi altri) continuo a non amare particolarmente i registi freddi, quelli cioè che di solito costruiscono pellicole in cui non si riesce ad entrare in empatia con i protagonisti. Soprattutto, mi lasciano ancora perplesso gli autori che non “parteggiano” per i propri eroi. Ormai è qualche anno che scrivo di cinema: ho visto e recensito un’enorme quantità di pellicole, per cui suppongo di aver acquistato una certa competenza in quello che faccio. Io però sono anche (anzi, soprattutto) uno spettatore, che ha ancora bisogno di emozionarsi: ci riesco attraverso l’immagine, attraverso la raffinatezza della visione, ma soprattutto continuano ad emozionarmi le storie ed i personaggi. Ebbene, pur nella sua imperfezione, Sideways mi ha emozionato. Prima di tutto, perciò, applauso meritato a Payne, che ha completamente cambiato registro narrativo: ha raccontato con la solita sapida arguzia, ma con enorme partecipazione, la storia di Miles. La sua regia ne ha guadagnato in scioltezza e sensibilità, scrollandosi l’appiccicoso sospetto di spocchiosa stilizzazione che aveva accompagnato Election e A proposito di Schmidt. La sceneggiatura, preziosa e stratificata, permette al film di scivolare sinuoso per più di due ore, e tratteggia meravigliosamente tre anime perse, confuse, forse inaridite.
Payne sceglie tre attori capaci di dare il meglio di sé, soprattutto una Virginia Madsen dolente e sensuale.
Sideways conferma definitivamente il talento di un autore affascinante, che fa un cinema di basso profilo ma di alto contenuto. Un cinema che nel suo scanzonato e gigione realismo non diventa mai sciatto, o peggio noioso. Questo è probabilmente un film più sommesso rispetto ai precedenti, magari anche un po’ taciturno, ma capace in un attimo di arrivare al cuore di chi guarda, adoperando una vena malinconica che incredibilmente si mescola allo humour più slapstick.
Cinema di anti-eroi, di storie e di personaggi. Io l’ho amato.