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Sicko
id., Usa, 2007
di e con Michael Moore

Il prezzo delle dita
recensione di Emanuele Boccianti



Dopo la parentesi Fahrenheit 9/11, Michael Moore riacquista quel peculiare punto di vista, fatto di lucidità e insieme di emotività, che aveva caratterizzato il suo cinema dai tempi di Roger & me. Sicko prosegue il percorso di indagine nelle contraddizioni della cultura americana, o per meglio dire gli dà finalmente l’inizio che doveva avere, dato che la gestazione del progetto è anteriore allo stesso Bowling a Columbine; poi, come ha detto Moore, l’episodio del 1999 nel liceo del Colorado cambiò le priorità. Ma la situazione sanitaria è sempre stata un rovello assillante per il regista: ne ha sempre parlato.
Il regista parla col pubblico, attraverso il suo sito: gli chiede di raccontargli le disavventure patite con le compagnie di assicurazione sanitaria. Dopo le prime venticinquemila e-mail in pochi giorni, decide di incontrare alcuni di loro, verifica le circostanze delle vicende da questi raccontate. Come sempre, si guarda intorno: la casa, il quartiere, la qualità della vita della gente che incontra via via. Poi ecco le interviste, le riprese di repertorio, i documenti, quindi le lacrime, la commozione. Moore non usa il lasciapassare intellettualmente comodo del cinema-verità, come qualcuno ha detto. Si fa attore in mezzo agli attori (anzi, gli attanti), contravvenendo, è vero, all’implicito understatement di imparzialità di tanto documentarismo. Ma la trappola non c’è, o se c’è è fin troppo in bella vista per cascarci. Fortunatamente, non è l’unica cosa ad essere esibita, nel film. Ci sono ad esempio le confessioni in un aula di tribunale di un alto quadro di una compagnia assicurativa, il quale ammette di vivere col rimorso per aver scritto centinaia di volte la risposta denied-respinta sulle richieste di esami o di cure specifiche, perché ogni richiesta respinta è per l’azienda un risparmio netto e quindi un aumento di profitto; tutto questo ben sapendo che dietro ogni ‘denied’ potrebbe esserci una morte. Perché così è stato, in moltissimi casi, cosa che Sicko non rivela, ma documenta. Nessuno doveva rivelarci che nel paese che è l’espressione politica massima del capitalismo la salute è stata trasformata in una merce, e così assoggettata alle stesse leggi del profitto di qualsiasi altro bene alienabile. Però non avevamo ancora visto consegnato il listino dei prezzi ad un uomo per farsi riattaccare due falangi: dito medio $ 60,000, anulare $ 12,000. Nessuno doveva venirci a rivelare che l’America è un paese di gente che vive nel terrore, con l’enorme, smisurata mole di conseguenze che ne derivano. Diverso è però leggere quel terrore negli occhi di una donna in fin di vita abbandonata sul marciapiede di un ospedale come spazzatura, scaricata lì da un taxi pagato da un'altra clinica, la quale non prendeva in degenza gli assicurati di quella compagnia. Le tematiche sono complesse e delicate, quanto basta perché in molti si sentano infastiditi dalla semplicità con la quale il regista ce le illustra e ci propone percorsi di indagine. Ma chi scrive non si sente comunque di archiviare quei suggerimenti come fuori luogo né intrinsecamente semplicistici.
Moore non è solo “sul” campo in quanto orientato nella battaglia, è anche “in” campo nel senso di osservato oltre che osservatore: è uno statunitense sovrappeso che gira col berretto da baseball, la tessera della National Rifle Association e va pazzo per McDonald. Il suo cinema si gioca tutto nello scarto tra la propria aderenza al documentato in quanto “fazione” in causa, e la distanza che riesce a creare con il mezzo cinematografico propriamente detto, che è l’ironia del suo linguaggio, fatto di ritmi e montaggi irriverenti, provocazioni, e perfino teatralità. È forse un’ironia di grana grossa, a volte, però basta per fare di Sicko più di una denuncia: è prima di tutto cinema, quale che sia la sua statura.